Non è facile parlare di televisione italiana, non per una presunta complessità di quest'ultima ma per la pochezza dilagante che la caratterizza. Una pochezza che sembra rispecchiare quella culturale in cui siamo caduti, un baratro da cui diventa sempre più difficile risalire e le colpe, qui, sarebbero da dividere equamente tra noi, il popolo spettatore, e loro, quelli che tirano i fili e che ci impongono delle scelte evidentemente sbagliate. In fondo non serve gridarlo ai quattro venti: se la qualità dei format è (più o meno) il linea con quella dei programmi europei, quella dei prodotti popolari, di intrattenimento a livello di fiction, è praticamente sottoterra. Le proposte della televisione italiana sono squallide, poco curate, poco profonde e assolutamente fuori tempo massimo, intrappolate in un'idea di TV anacronistica. Si tratta dello stesso discorso fatto tante volte sul cinema nostrano e credo che, alla base, continui ad esserci quella noncuranza, quella poca voglia di investire che ci caratterizza nel settore. Una tristezza infinita a cui il popolo italiota sembra essersi abituato e che sembra richiedere, quello stesso popolo che si accontenta e si esalta per le varie Elisa di Rivombrosa, Squadra Antimafia e chi più ne ha più ne metta. Inoltre, se molti altri paesi hanno da tempo superato l'idea che i prodotti televisivi debbano essere necessariamente di serie B, per noi la TV resta quel fratello povero di un cinema che non va da nessuna parte e che, se osa (e devo ammettere che ultimamente sta osando), viene punito perché non si può fare altro che dare al pubblico quel che il pubblico è stato costretto a chiedere.
Fu un caso più unico che raro, proprio per questo, quando nel 2008 arrivò sui nostri schermi televisivi quella che potremmo definire la prima serie dal sapore internazionale (per respiro, stile, intenti e budget) della storia italiana forse dai tempi di uno sceneggiato come Il Segno del Comando (1971): Romanzo Criminale. Una serie ispirata all'omonimo film di Michele Placido del 2005, ideata e girata dal giovane Stefano Solima (figlio di Sergio, uno dei protagonisti del cinema di genere nostrano tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70) che viaggiando sulle frequenze di Sky riuscì a scuotere le coscienze in letargo di molti spettatori italiani. Dal 2008 al 2010, quasi un miracolo dopo il fallimentare tentativo di Salvatores con il suo Quo vadis, Baby?, per poi ricadere nell'oblio senza un'idea che fosse una, senza tantar di battere il ferro ancora caldo. Insomma, una speranza lasciata sfumare troppo presto.
E allora immaginate il mio stato d'animo quando, complice la lettura di vari post di altri blogger e il passaparola degli amici, mi sono affiancato ad un prodotto come Gomorra - La Serie.
A Napoli due cosche cammorristiche si fanno guerra: si tratta della famiglia Savastano e di quella Conte. L'obbiettivo e il controllo dello spaccio locale.
2014, ben quattro anni dopo la seconda stagione di Romanzo Criminale. Anche in questo caso si tratta di una serie tratta da un film di successo tratto da un libro divenuto best seller. Anche in questo caso di una serie gangster, di uno spaccato italiano, di un argomento che richiama fatti di cronaca. Per non parlare del nome che spunta alla regia, quello di Stefano Solima che ci riprova e a cui è stata affidata la direzione artistica del progetto. Eppure Gomorra - La Serie, è il segno tangibile di un'evoluzione stilistica/artistica e mentale, il tentativo di emulare i colleghi d'oltralpe e anglosassoni cavalcando quel che è il nostro retaggio storico senza per questo lasciarsi andare a malinconici ritorni al passato. Perché è il nostro sguardo, incapace di andare avanti, che ci frega. E' il nostro rimanere ancorati ad un passato che non tornerà mai più e che ci rende stupidi e squallidi quando lo proviamo a ripercorrere. Gomorra invece è una serie fresca, tesa, che ha richiesto lo sforzo di tre registi e di una produzione in linea con gli standard mondiali, che prende la cronaca e un pezzetto di storia contemporanea del nostro paese e la manipola attraverso un iperrealismo estremo. Assurdamente senza cadere in campanilismi, sfruttando anzi il campanilismo e trasformandolo in un'arma vera e propria. La forza del dialetto, la potenza di una tensione al reale che non ricerca il realismo ad ogni costo. Il quartiere Secondigliano, dove è ambientata gran parte della faccenda, è si il famoso e oscuro quartiere di Napoli ma diventa, sotto la focale della MDP, rappresentazione del ghetto, della disperazione, della povertà e dei soldi facili, mentre i camorristi non sembrano altro che gangster come li troveremmo in qualsiasi altra città del mondo, da Londra a Mosca a New York. Tutto questo senza privarsi di quell'identità che contraddistingue il prodotto come "uno di casa nostra" nonostante a "casa nostra" prodotti così non se ne vedano mai.
E allora parliamo di maturità. Una maturità appena presa, ma evidente. Ovvia. Quasi Romanzo Criminale fosse stata una scuola che ha permesso di porre dei paletti dietro cui non si sarebbe più potuto andare. Gomorra è, in questo senso, una sorta di diploma. Alla laurea ci arriveremo quando alcuni difetti saranno curati e per questo, forse, dovremo aspettare la seconda stagione facendo gli scongiuri e sperando non si tratti di un salto indietro. Ma i difetti sono fisiologici in un prodotto come questo, quasi prevedibili. Ne hanno quasi tutte le serie, persino alcuni capolavori, quindi sarebbe stato inutile non aspettarseli qui, al secondo tentativo vero e riuscito. I difetti di Gomorra sono tutti in alcuni passaggi eccessivamente romanzati e accessori, in certi personaggi (il contabile), in certe forzature (SPOILER la morte di Donna Imma, la parte delle elezioni truccate, l'ultima e più spettacolare puntata la momento della resa dei conti SPOILER) ma necessari per il proseguo di una storia non facile, narrata da tre punti di vista differenti: quello del boss Pietro Savastano, quello di sua moglie Donna Imma e quello di suo figlio Genny. Tre protagonisti raccontati da altrettanti registi: Solima, Francesca Comencini e Claudio Cupellini, proprio come fanno in America, quando affidano una serie a più teste per la direzione delle puntate. Nonostante ciò una incredibile coerenza narrativa caratterizza Gomorra, una omogeneità impressionante con le prima puntate a fare da cornice e un crescendo che alterna la capacità di stupire a quella di ipnotizzare attraverso l'eleganza stilistica. E ci si passa sopra, almeno durante la visione, a questi difetti, perdendosi in un turbinio di sangue, violenza e tradimenti, con quella camera traballante per ingigantire il realismo e che mi ha ricordato tanto quella di The Shield, senza voler fare paragoni sciocchi.
L'estetica è quella del cinema che conta. Curata, ricercata, mai manieristica. Non ci può essere "maniera" quando cerchi di raccontare una realtà sporca e bastarda come questa. Non ci si può impelagare tentando di romanzare i personaggi, le situazioni e i contesti. Cercando di mitizzare il marciume e idealizzare l'ingiustizia. Non si fa il tifo per nessuno dei personaggi di Gomorra. Forse all'inizio per Ciro, prima di comprendere la vera natura del personaggio. O per Don Pietro, che ricorda tanto la mafia cinematografica di Scorsese e soci. O meglio, il tifo si arriva persino a farlo, ma resta quell'amarezza di fondo, rimane chiaro nella mente di tutti che questi personaggi sono negativi, impossibili da elevare. Fanno cose orribili per motivi poco nobili. Umani, certo, troppo umani e per questo empatici, ma distanti lo stesso. Se in RC è possibile parlare di antieroi, in Gomorra non è più possibile. Ed è questo il bello della serie: nessuna scusa, solo l'odio, il rancore, l'onore e
Gomorra - La Serie, è la prova che anche qui da noi la buona televisione è possibile, ma non solo: è la prova che si può migliorare e ci si può proiettare a livello internazionale mantenendo un appeal italiano. Intanto da noi è già mito, con i vari tormentoni e questi video qui, che sicuramente già avrete visto. Quanto sia costato tutto questo non ci è dato saperlo, quali effetti avrà sul "nostro" futuro ancora meno. Inutile preoccuparsene, godiamoci il presente e "sta senza pensier". E adesso, musica.