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[Recensione] Grand Budapest Hotel (di Wes Anderson, 2014)
Creato il 05 maggio 2014 da Frank_romantico @Combinazione_CGrand Budapest Hotel, film scritto e diretto da Wes Anderson, vincitore del Gran Premio della Giuria nella 64ª edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, è un film incentrato sulla fine a cui, necessariamente, non segue una rinascità. Un film che non parla di ciclicità ma che racconta un ciclo, una storia, prendendola alle spalle. La narrazione in una narrazione in una narrazione, come scatole cinesi. La fine nella fine di un'altra fine. Un film che parla di gente che se n'è andata, che è sul punto di andarsene o che, semplicemente, è di passaggio. Di gente che, fino alla fine, fa di tutto per poterci essere. E la storia, l'epoca in cui è ambientata e il mondo che le fa da cornice sono proprio come l'hotel il cui nome da titolo alla pellicola, anch'esso sul punto di scomparire ormai dimenticato ma che, come simbolo di un passato glorioso, si erge sulle montagne dell'immaginaria Repubblica di Zubrowka. Una torcia sul punto di spegnersi, ma dalle braci ancora bene accese.
Nell'Europa di inizio Novecento, Gustave H fa il concierge presso il Grand Budapest Hotel. Lì conosce Zero Moustafa, un lobby boy che pian piano si guadagnerà la sua fiducia e diventerà un suo protetto. Un giorno Gustabe riceve in eredità da una sua vecchia amante morta per in misteriose circostanze un dipinto rinascimentale di inestimabile valore. Dipinto a cui però mira il viscido nipote della donna, Dmitri. Sarà questo l'inizio di una dura battaglia senza esclusione di colpi.
Personaggi che si muovono, personaggi che fanno cose, personaggi che si affannano, lottano e si scontrano. Il tutto per un dipinto inestimabile (Ragazzo con Mela) che però è solo un simbolo: di ciò che dura in eterno, di ciò che non può appassire ma anzi, aumenta di valore man mano che il temp opassa. E l'eternità, ambita ma irraggiungibile dall'uomo, diventa il semplice prestesto che spinge Gustave e Zero a lottare con tutte le loro forze contro uomini, (in)giustizia e casualità. E non si tratta di mere questioni anagrafiche, né di ricchezza o di potere. Si tratta delle tracce che lasciamo al nostro passaggio, del pretendere che, ad ogni costo, qualcuno si ricordi di noi. E forse sono proprio le storie che raccontiamo e che passano di bocca in bocca, di penna in penna, a mantenere in vita un barlume di noi stessi in questo mondo. In fondo Anderson non solo ambienta gran parte del film nell'Grand Budapest Hotel ma trasforma lo stesso hotel nel protagonista della storia. Non semplice cornice, il Grand Budapest diventa non-luogo di passaggio per brandelli di umanità, ognuno con una storia da raccontare o da ascoltare. E a raccogliere la storia di un vecchio Zero Moustafa c'è un giovane scrittore senza nome che, a sua volta, non è altro che l'ennesimo strumento in grado di far rivivere un ricordo che, più passa il tempo, più diventa inestimabile.
Ma come parlare di un'argomento tanto complesso, tanto sentito e tanto difficile da filmare? Come dar valore a una storia e allo stesso tempo astrarre il senso ultimo del suo significato? Lo stratagemma che utilizza Anderson è semplice: quello di porre la storia stessa lontano, in un (altro) luogo e (altro) tempo, distanti, al di fuori della Storia. E a questo punto "... tanto tempo fa, in un posto lontano...", quello della fiaba è il condice narrativo che più si adatta. La storia del Grand Budapest Hotel, in fondo, è persa in un tempo lontano e i suoi personaggi si muovono in una realtà che non è la nostra, nonostante ci assomigli. Solo per diventare iconica, leggendaria, simbolica. Dal sapore agrodolce come solo una fiaba può essere, con personaggi buoni e personaggi cattivi ma forse solo all'apparenza. Perché se è vero che c'è l'uomo nero, c'è il principe malvagio e ci sono le sorellastre cattive, è anche vero che non c'è nessun eroe e che, al di là di personaggi macchietta ,c'è la necessarietà di esistere in un dato modo come al di là dell'etichetta di Gustave resta qualcosa che infrange le apparenze. Perché, lo ripeto, formalmente questo film è uno stratagemma che Anderson usa per rimanere attaccato alla sua poetica, al suo modo di fare cinema.
Un cinema tra il grottesco, il dramma e l'ironia. Un'esplosione di colori, di voci e di volti. Tanti attori di rilievo, conosciuti, che prestano le loro facce in maniera mai casuale e, magicamente, diventano sconosciuti come i personaggi che ci apprestiamo a conoscere. La fotografia di Robert Yeoman, con quei rossi e quelle sfumature color oro che si incontrano e si scontrano con il gelido bianco, l'argento e il nero fuliggine. Il linguaggio contorto, arzigogolato, le scelte linguistiche illogiche che raggiungono una loro logicità. Senza dimenticare le magnifiche musiche di Alexandre Desplat. Tutto questo per immortalare un frammento di tempo e renderlo immortale, perchè se una cosa finisce non è detto che debba scomparire, facendo finta non sia mai esistita.
Alla fine Grand Budapest Hotel non è quel capolavoro di cui ho sentito parlare ma è un film bello anche se forse concede troppo il fianco nella parte centrale. Ma è un bel film, sì. E, a fine visione, vi sembrerà di esserci stati per davvero in quell'hotel dalle fattezze di un castello fatato e di aver abitato, anche solo per un paio d'ore, il paese delle meraviglie dal gusto agrodolce che il regista ha creato per voi.
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