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Recensione: "Hunger Games #3 - Il canto della rivolta” di Suzanne Collins

Da Valentinabellettini
Recensione:
Titolo: Hunger Games – Il canto della rivolta  Titolo originale: Mockingjay  Autrice: Suzanne Collins  Pagine 421  Editore: Mondadori (24 agosto 2010) Collana: Oscar Grandi bestsellers  ISBN-13: 978-8804632245  Prezzo: 13 
Trama.
Contro ogni previsione, Katniss Everdeen è sopravvissuta all'Arena degli Hunger Games. Due volte. Ora vive in una bella casa, nel Distretto 12, con sua madre e la sorella Prim. E sta per sposarsi. Sarà una cerimonia bellissima, e Katniss indosserà un abito meraviglioso. Sembra un sogno... Invece è un incubo. Katniss è in pericolo. E con lei tutti coloro a cui vuole bene. Tutti coloro che le sono vicini. Tutti gli abitanti del Distretto. Perché la sua ultima vittoria ha offeso le alte sfere, a Capitol City. E il presidente Snow ha giurato vendetta. Comincia la guerra. Quella vera. Al cui confronto l'Arena sembrerà una passeggiata.
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La fine dei Giochi
Il secondo libro della serie, “Hunger Games – La ragazza di fuoco” ci aveva lasciato con Katniss Everdeen recuperata dall’Arena e portata in salvo da un Hovercraft fino al distretto 13, distretto che prima d’allora si riteneva abbandonato e distrutto. Ma il 13 esiste ancora, con la sua gente e con i pochi superstiti del distretto 12 (bombardato a seguito dell’azione rivoluzionaria di Katniss durante l’Edizione della Memoria), oltre ad alcuni dei Tributi partecipanti agli ultimi Giochi.  Nel distretto 13 gli individui vestono di grigio e hanno un programma prestabilito a cui attenersi ogni giorno; non è molto diverso dalla dittatura che il Presidente Snow attua sull’intera Panem, ma qui il regime è a capo di una donna di nome Alma Coin. Katniss fatica ad ambientarsi in questa rigida società ed è tormentata dalle conseguenze delle sue azioni, nonché dalla perdita di Peeta; pur avendo la sorella Prim e il migliore amico Gale al suo fianco, l’unica cosa che comincia a muovere la ragazza è un sentimento di vendetta nei confronti del Presidente Snow, per cui, quando apprende che la Coin sta organizzando un esercito di ribelli per piegare i distretti fino ad arrivare a Capitol City, la ragazza, seppur inizialmente riluttante, accetta di riprendere le vesti di Ghiandaia Imitatrice come simbolo della rivolta. 
La prima parte del romanzo procede un po’ a rilento, ma del resto rispecchia il ritmo di quando si trattano temi come la politica, la tattica (i filmati pass-pro che sono registrati dai ribelli per fare incursioni durante le trasmissioni di Capitol City) e lo stato d’animo di una Katniss che sembra voler lasciarsi andare alla sconfitta e smettere di combattere.  Rivedere Peeta davanti alle telecamere della trasmissione di Ceasar Flickerman, vivo, ma prigioniero, non è un sollievo: Katniss comprende subito che egli è lo strumento attraverso il quale Snow esercita una pressione psicologica nei suoi confronti; per ogni sua mossa, il presidente si rifarà su Peeta. Quello che Katniss non sa è che Snow ha già fatto qualcosa ti terribile a Peeta… con questa rivelazione si apre la seconda parte del libro, e da qui in poi il romanzo si fa ricco d’azione, avvincente come i precedenti. Ogni capitolo si conclude con un colpo di scena che non fa che accrescere la voglia di continuare a leggere, spingendo il lettore a divorare la storia pagina dopo pagina.  Quello che mi ha piacevolmente sorpreso di (tutti gli) “Hunger Games” è che non è affatto scontato: fino all'ultima pagina non si sa chi sopravvivrà e chi no, e, in questo caso, chi metterà fine alla dittatura del presidente Snow.  Personalmente, adoro quest’imprevedibilità, persino il fatto che l’autrice giochi sul farci credere una cosa per poi rivelarcene un’altra.  Tutto questo accade, ovviamente, anche sul fronte sentimentale: il legame tra Katniss e Peeta si stravolge, e nemmeno il legame che Katniss ha col suo migliore amico Gale è così semplice. Perché la guerra, e l’istinto di sopravvivenza (i veri temi principali di questa saga) tirano fuori un lato di noi che persino noi stessi non conosciamo. Piccola parentesi, io che non amo i “triangoli” perché solitamente scontati, promuovo a pieni voti quello in “Hunger Games” perché ben costruito, specialmente nel formato libro (piuttosto che al cinema) dove si “sente” la voce di Katniss in prima persona che esterna tutti i suoi sentimenti e dubbi.  Un altro grande tema della saga è la fame (“Hunger”) ma in questo volume le condizioni di miseria non sono trattate come nei precedenti (comunque, il messaggio era già arrivato forte nel primo libro), ciò nonostante, basta una citazione per farlo tornare alla ribalta, una citazione in latino che si scopre essere il motto di Capitol City: “Panem et circenses”. Pane e giochi. Un momento: Panem non è il nome della terra in cui è ambientato “Hunger Games”? Il vero messaggio dell’autrice si fa, se possibile, ancora più esplicito.
Quello che succede sul finale è inaspettato, da non crederci, e spinge a riflettere sulle conseguenze delle nostre azioni (fino a che punto sono giustificate?), sul senso della guerra, sulle vittime che porta con sé e su quell’idea di Pace così effimera. Personalmente, la fase finale di questa guerra mi ha scioccato. Ma in fondo è così che nasce “Hunger Games” (ed è nell’essenza dei Giochi): non guardare in faccia a nessuno pur di sopravvivere, perché in guerra vince il più forte, mentre il debole è destinato a soccombere. Dopo tre volumi di crudeltà e bassezza umane, l’epilogo felice può sembrare quasi una stonatura, ma definirlo “felice” non è appropriato: è un “happy ending” che tiene in considerazione tutto l’accaduto, che ci ricorda che le ferite non sono solo fisiche, ma anche morali, e i protagonisti ne sono ancora emotivamente scossi, ed è una sofferenza palpabile, viva. Ma con questa consapevolezza, si va avanti. La vita continua oltre questo terzo volume.  Per me che ho chiuso il libro, viene voglia di ricominciare la saga daccapo, ma ripensandoci, è talmente forte quello che mi ha lasciato che posso scegliere di andare avanti, alla scoperta di nuove, interessanti e appassionanti avventure come questa.  E che come questa, magari, rientrerà tra le mie preferite.

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