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Recensione Il figlio di Saul

Creato il 21 gennaio 2016 da Lightman

Cannes 2015

L'ungherese Laszlo Nemes esordisce bene, in concorso, al Festival di Cannes 2015 con un film dalle tematiche importanti e dall'inconsueto formato visivo, pur non convincendo appieno.

Recensione Il figlio di Saul Recensione Il figlio di Saul

Serena Catalano Figura mitologica metà umana e metà pellicola, ha sfidato e battuto record mondiali di film visti, anche se il successo non l'ha minimamente rallentata. Divora cortometraggi, mediometraggi, lungometraggi, film sperimentali, documentari, cartoni animati: è arrivata addirittura fino alla fine della proiezione di E La Chiamano Estate. Sogni nel cassetto? Una chiacchierata con Marion Cotillard ed un posto nei Tenenbaum.

Ottobre 1944, Auschwitz-Birkenau. Una realtà che è nell'immaginario di tutti noi si staglia sullo sfondo, mai completamente a fuoco e costretta in un formato quadrato che basta a malapena per contenere le spalle di Saul, deportato ebreo e lavoratore nel campo di concentramento. La telecamera non lo lascia mai, Saul, nemmeno un momento. Non lascia né la sua nuca quando è di spalle né il suo sguardo freddo ed alienato mentre porta persone come lui negli spogliatoi e gli indica istruzioni per una doccia che si trasforma in niente più che urla strazianti. Il primo lavoro di László Nemes, Il figlio di Saul, inizia così, con l'orrore nelle orecchie molto più che negli occhi, a cui vengono regalati solo indizi sfocati che forse per questo si fanno ancora più dolorosi.
Raccontare l'olocausto non è mai semplice, soprattutto in Europa: si ha l'impressione di avere a che fare con un argomento ricattatorio, che presenta un'unica via d'uscita fin troppo facilmente sofferente. Il senso di colpa mondiale rappresenta un fardello con cui si affronta qualsiasi visione, compresa quella de Il figlio di Saul, che soprattutto all'inizio non vuole mettere a fuoco nulla che non sia il personaggio e tende a riempire quell'immagine sfocata con una memoria soggettiva, per questo ancora più spaventosa. Il regista lascia a noi il compito di vivere quell'orrore fin troppo raccontato, narrato, spettacolarizzato: per lui è fuori gioco e fuori fuoco, perché il vero orrore - ed il vero senso di colpa - è nel cuore e nei gesti di Saul.

Una narrazione coraggiosa ed intelligente a supporto di un diverso punto di vista su una tragedia ormai fin troppo raccontata

Nel suo prendersi cura di un corpo ormai senza vita, nel bisogno catartico di una sepoltura e di una cerimonia degna, Saul cerca il perdono del sopravvissuto ed una catarsi alla sua stessa esistenza da prigioniero. Per farlo baratta pezzi d'oro rubati ai prigionieri condannati, passa da un gruppo all'altro alla ricerca di un modo per salvare il bambino senza vita - un figlio che in realtà non è suo figlio - dai forni, per non farlo diventare cenere come tutti gli altri che ha lasciato andare. Riesce a salvarlo da tutto anche se di essere salvato ormai quel corpo non ha più bisogno, fino a lasciarlo andare e a trovare la sua liberazione in un modo inaspettato, appena accennato da un sorriso. Saul si ferma, si arrende all'evidenza e nel momento in cui lo fa anche la camera smette di inseguire le vicende, fermandosi e lasciando che tutto scappi via lontano, quando ormai non c'è più nulla da raccontare.
László Nemes si fa strada nel concorso di Cannes in 35mm e con un formato quadrato, che grazie ad una narrazione ossessivamente centrata sul suo protagonista riesce a catturare nella prima parte lo spettatore: ad aiutarlo è anche l'affascinante reparto audio, costantemente presente per contribuire a ciò che l'occhio, forzato dal formato, non riesce a vedere. Il film ha un costante sottofondo metallico, fumoso e chiacchierato che lascia entrare lo spettatore all'interno dell'inquadratura pur negandogliene la vista, straziandolo nel momento in cui il sottofondo viene superato dalle urla dei prigionieri dietro una porta sigillata. Le intenzioni del regista per quanto riguarda la messa in scena hanno quindi spunti interessanti, ma l'intera narrazione ne soffre a lungo andare rendendo la parte centrale più difficile da far scorrere, restituendo un lavoro ancora un po' acerbo ma che dimostra delle idee interessanti da sviluppare.

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