[Recensione] Il soffio delle radici di Carla De Falco

Creato il 05 marzo 2013 da Queenseptienna @queenseptienna

Titolo: Il soffio delle radici
Autore: Carla De Falco
Editore: Laura Capone Editore
ISBN: 9788897226239
Anno: 2012
Lingua: italiana
Numero pagine: 111
Prezzo: € 10,00
Genere: Poesia
Voto:

Articolo scritto in collaborazione con Federica Dotto

Contenuto: Se è vero che esistono modi diversi di fare poesia e di sentirla, è solo una la destinazione a cui ognuna di queste vie può portare, ed è l’emozione. Un’emozione che non è il semplice agitarsi di sentimentalismi facili e a malapena abbozzati, ma è la capacità di accendere un palpito involontario e indelebile nel lettore o nell’ascoltatore. Nei versi di Carla de Falco proprio questo tipo di emozione è al centro dell’azione poetica, il collante di tutto: la poesia come via di comunicazione con il mondo e come strumento per relazionarsi con la vita. Le quattro sezioni di cui si compone questo libro affrontano ciascuna un tema specifico. La prima, il soffio delle radici, esplora il rapporto con la terra e le origini; la seconda, emozioni al confine, richiama per l’appunto l’ambito dell’emozione, declinata in questo caso nella sfera affettiva; la terza, la fiamma del canto, riflette sul senso e sulla necessità del canto poetico in un mondo che sembra aver sancito l’inutilità dell’agire poetico; la quarta, abissi per versi, scende con un evidente gioco di parole nell’angolo oscuro dell’essere umano [dalla prefazione di Simone Camassa].

Recensione: Nel prologo la poetessa, nel porgere a chi legge un saluto, chiede di fermarsi, anche brevemente. Chiede di godere della dolce tregua di un mare in apparenza poco mosso, quello dell’inchiostro che scorre nei versi, pronto a mareggiare.

Le poesie qui raccolte nascono appunto dall’inchiostro nero, dalle linee contorte e attorcigliate come serpi che parlano di fogli bianchi da riempire, da avvolgere, da coprire (radici). È già questo un forte richiamo di luoghi, di un sud celebrato in versi. Il sud viene evocato non nella bonaccia, non nel negativo di una fotografia o sotto l’impressione di una cartolina statica, ma nel contrasto di immagini e talvolta di colori che si respingono e offrono tuttavia un’immagine reale, vivida, totale, mai di contorno: ecco la rinascita, il latte (bianco), il lutto (nero). La poetessa è radicata nella sua terra senza esserne imprigionata. Guarda fuori, oltre, con occhio vigile tutto il reale, ma nulla sembra così grande o imprendibile da non poter essere afferrato e appeso a un chiodo. Le cose semplici e quotidiane salgono dalla terra, verso il cielo, fino a riempire il domani che proprio per questo si fa piccolo, semplice, afferrabile. Come il ricordo che si volta, torna indietro e si posa di nuovo sulle cose e sulla loro promessa (seduta).

Il nero e il bianco, strato su strato, sono i colori dominanti, un alternarsi fecondo di luci accecanti e ombre scure. In questo avvicendarsi percepiamo una tenue eco fiabesca e malinconica del passato, dell’infanzia. Le persone care sono volate via, ma eterno come la sua essenza è il sussurro che sprona, con formule incantatrici, a innalzarsi. Il mare è la natura col suo respiro eterno, intorno al quale navigano ombre sulle quali si innalza sovrano, appunto, la poetessa (rovaglioso).

La pagina si riempie poi di altri colori che raccontano il fuoco tormentoso nel quale arde il cuore della poetessa all’unisono con quello del sud, narra di febbri che sanno essere malvagie, del mare che con il suo profumo sembra posare una mano lieve e tranquillizzante. Tutto questo si vede nel bianco di una tela che si macchia all’improvviso (odori di partenope).

Le poesie sono un continuo prendere e lasciare, guardare avanti e ricordare, riversare pensieri sulle cose e cose sui pensieri, in un continuo capovolgimento. Terra che si fa cielo, cielo che è specchio della terra. Nuvole bianche sopra il suolo nero, neve bianca sotto il cielo notturno. Il mondo stesso si rovescia ed è rovesciato, fatto di cose che sono specchio di quelle che dovrebbero essere. Ciò che resta sono splendide e inutili utopie che hanno impotenti custodi. I bambini (il passato che arde di luce viva) sono fagocitati dal vizio e dalla bruttezza del mondo adulto (il futuro che somiglia alla notte scura) (il cielo capovolto).

 Strato dopo strato, non c’è solo l’inchiostro che tinge la pagina bianca, ma anche la neve che tinge, come seme di zucchero che fiorisce sui prati, il suolo nero, che diventa terra madre e accogliente (nevicata). Diversa dalla coltre nevosa è il ghiaccio, bianco che se la intende con il nero, e rende dormiente il paesaggio invernale, poco umano. Eppure oltre il nero e il bianco spunta un altro colore: il rosso di antica brama, unico segno sanguigno di vita latente, che raffigura un dormiente vulcano e l’animo della poetessa, entrambi pronti a ridestarsi (ghiaccio).

Chi guarda, chi è testimone, a chi appartiene il rosso di antica brama? È uno sguardo affascinato e affascinante, che incanta ed è incantato, coriaceo e tagliente allo stesso tempo. Può trasformare la sabbia di un deserto in un giaciglio, la trama di serpenti in un scendiletto, le dune in guanciali, il cielo stellato in una coperta. E vi sono altri colori, a parte il bianco e il nero: l’arancio delle nubi, l’oro delle stelle, il viola delle ore notturne, il rosa dell’alba (ksar ghilane).

L’occhio che guarda appare molteplice: si apre dal basso e guarda verso la volta celeste, si fonde in una luna dal calore prepotente, sgargiante e non pallida. La luna stessa è un grande occhio che dall’alto sembra esplodere per riversarsi in mare. E accanto c’è la città bagnata da questo mare, una Napoli che, con il suo Vesuvio, sembra stella tra stelle (lungomare), un cielo rovesciato. Ciò crea una corrispondenza strettissima non priva di un sottofondo armonico.

Colto questo, la poetessa può ora ritirarsi nel proprio intimo, e scoprire cosa vi si trova: anch’esso un insieme di stati e di luoghi da sondare. Le poesie che si incontrano sono le più delicate e toccanti, alla madre assente è molto carnale, si percepisce il dolore comune nel partorire e nel nascere, la lacerazione di corpo e di anima. La ferita così è duplice, di quelle che non sono destinate a emarginarsi: è un dolore di sangue perché provocato dal distacco di una figlia che non è più la madre, non le somiglia, non le è specchio, né velo.

Quando lo sguardo si eleva, persone, cose e luoghi si compattano in un unicum. Quando si ridiscende e si distinguono, si sezionano persone, cose e gli stessi luoghi, il medesimo occhio produce dispersione, distacco, dolore, vuoto. Si sente con urgenza la necessità del verso che disperatamente riconsolidi, rinforzi, leghi quanto appare ora slegato e disarmonico.

Giunge il momento del canto triste, il racconto dolce e mesto di un’ombra inquieta che ricorda quanto l’amore (portatore di unione, di armonia del tutto), simile a un fiore, possa mostrarsi vano e sdegnoso, tanto da condurre a un pianto amaro: così si esprime per incompiuta voce, che ricorda la struggente bellezza di molti sonetti petrarcheschi.

Ecco quindi la carnalità divorante, oscena e sanguigna dell’amore, fatta di morsi e lividi, denti e istinto, pasto, voglia vorace. Nel componimento la fame ciascun lemma richiama l’atto del divorare, qualcosa che non nutre ma scava rughe, anzi buche, fossati, voragini dentro il cuore. Il rutto dell’ultimo verso è la sazietà volgare e falsa dei sensi, non dell’anima.

Ma dell’amore si parla anche come mistica, come mistero che fonde carne a vento in un unico sentire, in un’unica sostanza. L’amore si rivela al corpo e all’anima svelando, di essi, la loro unione (promessa, scatole da trasloco).

Di nuovo riappare la necessità e l’urgenza di tenere tutto insieme, senza dispersione: in una notte senza artigli, (il tuo avvento) la natura e il corpo di una madre in attesa si fondono richiamando il mare, il rotondo vulcano, il latteo chiarore lunare. La quiete, che in apparenza stride col tormento fisico della partoriente, crea l’avvento, l’attesa, una dolce tensione che blocca il respiro, che si scioglierà nell’ultimo verso, “una goccia di pura vita”, quasi una lacrima che si posa sul petto. La separazione vissuta come tradimento e sconfitta (figlia che non rassomiglia alla madre, che non le è specchio, né velo), una volta posata sul petto della partoriente torna la quiete dello spirito, quel po’ di armonia precaria.

Tutto questo può la scrittura: creare corrispondenze, ponti, un linguaggio comune tra persone e cose e e luoghi. Non mancano componimenti dedicati alla scrittura stessa, alla poesia (nessuno pseudonimo ammesso, aveva ragione ciarlz bucoschi, la mia voce) a sottolineare l’ansia di travasare su uno schermo di pc pensieri, parole, moti dell’animo per dar loro poi forma e voce. Affinché ciò sia possibile occorre chiudere gli occhi, non lasciarsi ingannare dalle sollecitazioni dell’esterno, riuscire a prendere le distanze dal ladro silenzioso della vista, cioè da ogni possibile abbaglio. Quest’ultima (ladro silenzioso della vista) è un’inedita ode al buio. Nel buio ci si deve abituare all’assenza di colore: le cose sono dove sono, si possono toccare e riconoscere. Più subdola, ingannevole e accecante è la luce che ferisce gli occhi, quella che avvolge, annichilendo, tutto ciò su cui si posa.


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