Io che amo solo te, un film di Marco Ponti. Dal romanzo omonimo di Luca Bianchini. Con Riccardo Scamarcio, Laura Chiatti, Michele Placido, Dino Abbrescia, Luciana Littizzetto, Eugenio Franceschini, Eva Riccobono.
Il padre della sposa (quello con Spencer Tracy e una giovane Liz Taylor), però in versione contemporaneo-pugliese. Scene di preparativi dal matrimonio tra i due belli del borgo, lui essendo Riccardo Scamarcio lei Laura Chiatti. Baruffe, problemucci e piccole isterie del giorno prima. Ma poi a prendersi tutta la scena è un personaggio gay con una sequenza che è uno spottone per il same-sex marriage. Il resto son cliché da nostra media commedia. Voto 5 e mezzo
Il secondo film italiano in poche settimane con endorsement incorporato per i matrimoni gay (queer, LGBT) al grido o al sussurro di “tutti hanno diritto alla felicità” (ma il matrimonio è la felicità?). Prima Io e lei di Maria Sole Tognazzi con quella sua lesbo-normalità in cerca solo di un imprimatur di legge, adesso questo Io che amo solo te, in apparenza prevalentemente etero ma sotto sotto assai queer con quella sequenza clou di un coming out omo-emozionale erga omnes di uno dei personaggi collaterali, e che però si prende tutta la scena e lancia il messaggio vero del film (e poi dicono che i messaggi passan solo su whatsapp). Io che amo solo te racconta di un matrimonio un po’ old fashioned e comme il faut uomo-donna e di tutto quello che gli sta intorno e dietro, e viene prima durante e dopo, e dei timori e i dubbi della vigilia e le ultime porconate e tradimenti prima che il rullo compressore del sì “finché morte non vi separi” ti schiacci. E dunque volete che ci si lasci sfuggire l’occasione per dire e gridare, commuovendosi e piangendo e facendo piangere, che anche i gay ci han diritto allo scambio d’anelli e magari alla benedizione del prete nella cappella caruccia di un qualche borgo-presepe d’Italia? Così è, così fa, questo film, mica per niente tratto da un romanzo di Luca Bianchini, colui che insieme a Ivan Cotroneo ha inoculato nel largo consumo e nei consumi letterari e/o televisivi e/o cinematografici del nostro popolo i primi rudimenti di una qualche cultura del vivere omosessuale. Il tutto nei modi di rappresentazione e nelle convenzioni di quella che un tempo era la nostra commedia più che italiana, regionale e vernacolare, adesso qui aggiornata dal regista Marco Ponti (do you remember Santa Maradona?) nell’ambito di un’Italia sempre regionale, ma normalizzata e omogeneizzata, dove i tanti sapori e colori locali messi in tavola ed esibiti dal film secondo gli imperativi e pure la retorica del food lento a dstanza ravvicinata, anzi a zero chilometri, coprono in realtà l’omologazione ormai avvenuta, la fine di ogni differenza. Siamo a Polignano a Mare, Puglia, muri calcinati, edicole dei santi, strade strette, mare-meraviglia, spiagge che son sbocchi di letti di fiumara sorvolati da vecchi ponti, tutto bellissimo come no, e con la fattiva collaborazione dell’attivissima e ormai egemone nel nostro cinema Apulia Film Commission. Che anche stavolta, come in molti altri e precedenti cineprodotti, finisce con l’essere tra i coautori veri, predisponendo sfondi e location e contenitori talmente connotati da condizionare e indirizzare lo stesso flusso narrativo. Tutto un c’è-una-bianca-casa-che (chi mai coglierà il riferimento?), uno scoglio aggettante sull’onda, e fuori paese masserie e ancora masserie, i nuovi santuari dell’agroturismo sud-italico chic ed equosolidale, naturalmente immersi in uliveti sterminati dove ogni minaccia di Xylella sembra scongiurata. Dunque, in questa Puglia bella, ma come estenuata e anestetizzata e deprivata di ogni antico furore plebeo, si svolge la nostra vicenda, la molte volte vista e letta preparazione di un matrimonio tra i due bellissimi del borgo, lui essendo Riccardo Scamarcio lei Laura Chiatti, non più così ragazzi ma ancora abbastanza credibili come neosposi. Non così ansiosi di diventarlo, giacché lei si lascia turbare dal fotografo piacione scelto per immortalare le nozze, lui da una curvacea ragazza del meglio caffè del paese con terrazza vista spiaggia. Son baruffe lui-lei e crisi microisteriche della quasi-moglie e di qualche parente, contrattempi e problemucci tipo l’abito da sposa (di una stilista milanese, dunque scostumata e assai insensibile alle tradizioni del nostro sud profondo) che la tremenda futura suocera di lei ritiene zoccolesco per via di scollatura eccessiva. Cose così, con accento pugliese ora verace del pugliese Scamarcio ora un filo finto e forzato degli attori importati. Arriva lo zio emigrato a Pinerolo con moglie piemontose, linguacciuta rompicoglioni, Luciana Littizzetto chi se no?, mentre tra il papà dello sposo (Michele Placido nel suo ennesimo ruolo di patriarca meridionale, personaggio che peraltro sa modellare come nessun altro) e la mamma della sposa si riaccende l’antica passione provata da giovani e impedita dalle famiglie. Qualche volte si sorride, più spesso ci si rassegna alla galleria di cliché e ai modesti tornanti di una storia già molte volte raccontata (e viene anche in mente Rachel sta per sposarsi di Jonathan Demme con Anne Hathaway, altro livello, certo). Il meglio sono i tratteggi al curaro di sbandierate modernità innestate a forza su paciose tradizioni di paese, come il parrucchiere che se la tira da makeup artist o l’intrattenitore della festa di nozze. Eppure a impossessarsi del film è un character che inizialment si presenta timido, e in posizione assai defilata, quello del fratello dello sposo interpretato da uno dei bellocci rampanti del nostro piccolo firmamento stellare, Eugenio Franceschini (però assai improbabile come pugliese con quella cadenza padana), con fidanzata di copertura in realtà lesbica (è una molto spiritosa Eva Riccobono), e che, come la vecchia talpa marxiana, scavando scavando sottotraccia finisce con l’arrivare al centro della scena e a rubarsela. Sì, va bene, però quella sequenza clou (che ovviamente non svelo) è troppo smaccatamente “politica”, troppo programmatica e militante, scritta com’è con le retoriche e le argomentazioni a presa rapido-emozionale degli agit-prop, e di ogni propaganda, perché l’importante è “far passare il messaggio”. Portandosi dietro un che di artificioso e forzato. E comunque pare che il pubblico gradisca. Nei primi tre giorni di programmazione secondo i dati Cinetel Io che amo solo te si è piazzato al secondo posto negli incassi incalzando Suburra. La canzone di Endrigo, che dà il titolo al film, è cantata da Alessandra Amoroso, anche lei pugliese, in una esecuzione di molti birignao americaneggianti e souleggianti come usa adesso, però mai vibrante davvero. Peccato, bella com’è.
Magazine Cinema
Recensione: IO CHE AMO SOLO TE. Matrimonio (etero) e coming out (gay)
Creato il 24 ottobre 2015 da LuigilocatelliI suoi ultimi articoli
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