Quando si entra nel campo del biopic, il campo è sempre minato. Non è facile scrivere e dirigere un film su un personaggio conosciuto dalla massa... non è facile penetrare il personaggio, non è facile rappresentare l'uomo e allo stesso tempo inserirlo nelle dinamiche sociali/culturali in cui vive o ha vissuto. Anche per questo, ovviamente, ci sono biopic più o meno riusciti. Molto dipende dal regista, ancor di più dallo sceneggiatore. Prendiamo un film come The Social Network e sbaviamo. Ecco, quello è un esempio di grande biopic che non si sofferma solo sul personaggio ma va oltre e che fonde al lato biografico una struttura (ed estetica) molto vicina al thriller. E quando sono andato a vedere Jobs, il recentissimo film su uno dei più grandi geni contemporanei, il paragone è sorto spontaneo e impietoso.
Jobs è un film di Joshua Michael Stern, scritto da Matt Whiteley. Non chiedetemi chi siano, non lo so e non lo voglio sapere. Non ripercorre tutta la vita di Steve Jobs ma solo quel periodo che va dagli inizi nel garage di casa assieme all'amico e co-fondatore della Apple Steve Wozniak, al ritorno in azienda dopo la cacciata ad opera di John Sculley. Il problema è che lo fa con superficialità, senza chiarezza, spingendo spesso sul pedale dei facili sentimentalismi e tralasciando le motivazioni profonde che rendevano Jobs il bastardo che era e le sue scelte alcune tra le più scellerate e intelligenti della storia (industriale) americana.
Ora, non mi aspettavo che il film sciorinasse tutte le sfumature di una personalità tanto complessa e di una vita tanto piena e originale. Non mi aspettavo nemmeno che sarebbe stato paragonabile alla bella biografia uscita qualche anno fa. No. Non sono stupido. Ma dal bisogno di fare certe scelte all'incapacità di costruire qualcosa di organico e interessante con esse, ce ne passa. Ed è questo che manca, in Jobs: la capacità di creare un tessuto organico che non permetta allo spettatore di distrarsi, la capacità di spiegare senza essere esplicito, la voglia di andare oltre ai classici monologhi strappa lacrime/sorrisi e di scavare dentro un personaggio talmente profondo e vario da permettere la produzione non di uno, ma di tre film. E invece tutto appare piatto nel film di Stern, monocorde, a tratti televisivo (a partire dalla fotografia). Lì dove si vorrebbe creare pathos resta solo la sensazione di una scena buttata lì (anche troppo per le lunghe), lì dove si vorrebbe mettere in scena le dinamiche interne di un personaggio rimane solo la voglia di stupire con pianti e urla. Non che Steve Jobs non fosse così: uno che urlava e piangeva. Ma senza introspezione resta solo un nevrotico qualunque che ha fatto tanto e non si capisce neanche come mai.
La colpa non è, ovviamente, solo di regista e sceneggiatore. Già solo la scelta del protagonista lascia perplessi: Ashton Kutcher è un attore mediocre che ci mette solo la faccia e le movenze, ma non riesce mai ad incarnare un personaggio troppo "grande" e scomodo. Jobs era uno stronzo bastardo, un insicuro e megalomane. Ma aveva un universo dentro che gli ha permesso di essere uno dei più grandi uomini della storia. Kutcher rimane una macchietta, l'interprete di una checca isterica. Gli stessi personaggi di contorno non riescono a dare quel qualcosa in più, nonostante alcuni dei nomi coinvolti. L'essenziale rimane sullo sfondo, tutto sembra ruotare attorno al nulla e quello che poteva essere un grande biopic (anche solo per il materiale a disposizione) diventa un filmetto guardabile, certo, ma assolutamente mediocre, a tratti noioso, che verrà presto dimenticato. Un uomo come Steve, con tutti i suoi difetti "umani", meritava qualcosa di più grande, di più vero, di più epico. Ma si sa, il mondo è pieno di persone mediocri che vogliono fare il passo più lungo della gamba. Il vero problema è che poi sia proprio a loro che vengono date possibilità che non meriterebbero.