Non
sono pazza – non al punto di parlare di queste cose con i vivi –
e non sono una fanatica dei tempi antichi, come Kyrre, ma mi sto
abituando al fatto che, a casa mia, ci sono ombre nelle pieghe di
ogni coperta e tremori impercettibili in ogni bicchiere d'acqua... E certi giorni si
aprono squarci minuscoli, quasi infinitesimali nella trama del mondo,
da cui il caos potrebbe sgorgare e prendermi alla sprovvista, ovunque
mi trovi.
Titolo:
L'estate degli annegamenti
Autore:
John Burnside
Editore:
Neri Pozza
Numero
di pagine: 285
Prezzo:
€ 18,00
Sinossi:
Liv
ha vissuto i suoi primi tre anni a Oslo, ma non rammenta nulla di
quel tempo. Conosce bene solo Kvaloya, settanta gradi di latitudine
nord, nel circolo polare artico, l'isola che sua madre, pittrice di
talento, ha scelto quando ha deciso di rifugiarsi in un luogo remoto
dove dipingere in pace. La baita grigia in cui la ragazza vive è
affacciata sul fiordo di Malangen, un tratto di costa dove non c'è
nulla, a parte la casa e la hytte - un minuscolo rifugio usato un
tempo per la caccia o la pesca - del vecchio Kyrre Opdahl. Il tempo
scorre diversamente sull'isola, le antiche leggende impregnano legni
di rimesse, pontili e dimore, come quella di Kyrre, dove si conserva
la memoria di antichi e funesti eventi: ragazzi di campagna usciti
alle prime luci dell'alba e tornati a casa contaminati da qualcosa di
innominabile, un battito d'ali o un soffio di vento nella testa, al
posto dei pensieri. Nella fantasia popolare i troll sono mostri e la
huldra una fata che, vestita di rosso, danza nei prati in attesa di
giovani uomini da ammaliare e distruggere, ma nella memoria di Kyrre
sono forze maligne all'origine di accadimenti reali. Con una tazza di
caffè tra le mani, Liv ascolta incantata e tremante i racconti del
vecchio. In cuor suo, tuttavia, non crede affatto all'esistenza di
tali forze o esseri. L'estate, però, in cui la ragazza compie 18
anni accadono eventi così letali da sradicare le più solide e ferme
convinzioni...
La recensione
In
Norvegia, sono più le persone che se ne vanno che quelle che
arrivano per restare. Le temperature rigide, le giornate che non
finisco più – notti che durano giorni, giorni che durano notti –
e l'isolamento perenne intimoriscono i viandanti. Gli stessi
elementi, in unione alla freddezza degli animi nordici e a una lingua
difficilissima, fanno spavento anche a chi c'è nato, eppure non sa
starci. Ci sono città, e soprattutto isole deserte,
sconsigliabili ai cuori fragili. Leggenda ha voluto, per anni,
almeno, che la distante Scandinavia detenesse un tristissimo primato:
lì, pare, il più alto numero di suicidi. Eppure io l'ho conosciuto
un bambino norvegese, alto, biondo e pieno di vita, che mi ha
insegnato una parolaccia o due nella sua lingua e, italiano per parte
di padre, mi ha spiegato – con quell'accento secco, che suona duro
e spietato di per sé – le differenze inconciliabili, i pregi e i
difetti. Eppure io, in questi Paesi belli e sinistri, ho sempre
desiderato andarci: di mio, più attratto dal sublime che dal
piacevole, più incuriosito dalle sfide che dalle passeggiate quiete
quiete. Un eremo nascosto, le onde, il vento alle porte. La terra
scura, in cui crescono fiori che non conosci e, in mezzo
alle radici, racconti tra mito e verità. Mi piaceva
tanto, ad esempio, la Scozia di La gemella silenziosa: una
cartolina da incubo. Valida alternativa, però, l'isola di Kvaloya:
la forma di un trifoglio, le alture a strapiombo sull'Artico,
settanta gradi di latitudine nord. Dove Oslo è considerata alla
stregua di una città esotica, straniera, e il sole di mezzanotte
ispira strane visioni. E' esattamente per quel motivo – una pazzia
che somiglia all'ispirazione, le visioni che offrono spunti per nuove
tele – che la mamma di Liv, pittrice corteggiata e sfuggente, si è
trasferita in un appartato bungalow sui fiordi. Alle spalle, si è
lasciata un uomo senza nome – perfino la figlia adolescente è
all'oscuro dell'identità del genitore – e un mondo non le dava pace. Nell'Isola delle balene, invece, il
contatto umano scarseggia – e il problema non sussiste, se sei
un'artista misantropa e hai una figlia chiusa a riccio nei
suoi pensieri strani – e gli scorci mozzafiato ti hanno reso non a
caso la più celebre paesaggista su piazza. Non succede mai niente a Kvaloya,
fino a quando, d'improvviso, non succede tutto. Lo anticipa la quarta
di copertina e, nelle prime pagine, lo conferma una narratrice
inquieta come poche. Il suo romanzo, cronaca di un'estate bizzarra,
di crescita e mistero, prende avvio nel momento in cui la sua storia
imbocca un sentiero mai battuto in precedenza e scova una falla
invisibile nel mondo che conosciamo.
E pensare che lì, mamma e
figlia, ritenevano di essere al sicuro dal trambusto e
dall'incertezza: protette per sempre dal mare. E pensare che,
studiose e razionali, non si erano poste il legittimo dubbio: le
favole sono favole, punto e basta. Come spiegare però la morte
di due fratelli, biondi e inseparabili, che sono annegati in una notte senza tempeste? Come svelare l'enigma di
uomini che scompaiono nel nulla e la
dipartita di chi, dissolvendosi, lascia una scia di cenere sulla
spiaggia? I troll, i folletti e le huldra,
fatali ragazze in rosso con coda bovina e fascino da sirena. Sugli
incidenti, la presenza fissa di una coetanea della protagonista, la
subdola Mia, e in testa, che suonano e risuonano, i racconti del
dirimpettaio, Kyrre Opdhal. L'estate degli annegamenti,
tuttavia, non è un giallo, né una storia da brivido in senso
stretto. In realtà, il mistero degli annegati – debitamente
riportato nelle sinossi, subito ripreso in apertura – è
affrontato sin dal prologo e, nelle successive duecento, trecento
pagine, fa capolino spesso ma non trova soluzione. Liv non è
una schiva e malinconica Nancy Drew, non gioca a fare la detective:
piuttosto, è guardiana e testimone, come in un La finestra
sul cortile che nel thriller fa
però sporadiche tappe, di una stagione in cui il mare a volte
prende e a volte dà.
Un nuovo inquilino, nella hytte del
vecchio e burbero Kyrre, che esercita anche un indiscreto fascino
sulla confusa Liv; qualche pretendente che va e qualche pretendente
che viene, di sabato, nel soggiorno di una mamma contesa come
Penelope dai proci; una lettera da Londra e, a scriverla, un padre
ignoto ma sofferente. Resterete delusi, se in cerca di un altro giallo che
viene dal nord. Ancora, resterete a bocca asciutta, se desiderosi di risposte a ogni
costo. L'estate degli annegamenti è
un libro nebbioso, sospeso, irrisolvibile, che in altre circostanze,
forse, non mi sarebbe piaciuto. Amo le atmosfere evocative, non
l'incertezza. Amo a piccole dosi le descrizioni meticolose, i
dettagli che del fiordo di Malangen mi fanno sentire il freddo nelle
ossa, non una lingua che, colta e baldanzosa, indugia più su se
stessa che nei dialoghi.
Però John Burnside, poeta britannico che incrocio qui per la prima
volta, scrive talmente bene – mi ha ricordato la prosa erudita di una Donna Tartt, ma le poche pagine e le situazioni fin troppo
circoscritte non cedono mai spazio a una simile verbosità – che mi
sarei goduto a tempo indeterminato la compagnia delle sue figure
instabili, contraddittorie, psicotiche che vivono in un perpetuo e dolce dormiveglia. Sognano o son deste?
Evocativo e oscuro, terreno e ultraterreno, L'estate degli
annegamenti è un romanzo a
confine, dalla scrittura a confine. Sogno di una notte bianca di mezza
estate, lì dove il mare e la terra si perdono l'uno negli occhi dell'altro. Smarrendo la via del ritorno.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Lana Del Rey – Summertime Sadness