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Recensione: L’oblio della ragione

Creato il 07 settembre 2011 da Topolinamarta

Il progetto “Libri in cambio di recensioni” prosegue: questa volta tocca a L’oblio della ragione, di Chiara Vitetta.

Recensione: L’oblio della ragioneTitolo: L’oblio della ragione
Sottotitolo: Racconti di inevitabile follia
Autore: Chiara Vitetta
Genere: racconti horror, noir.
Editore: Edizioni del Poggio
Collana: fantastico&giallo
Pagine: 162
Anno di pubblicazione: 2008
ISBN: 9788889008508
Prezzo: € 11,50
Formato: brossura
Valutazione: Recensione: L’oblio della ragione

Ringrazio l’autrice per avermelo spedito.

 

È incredibile la velocità con cui ho divorato questo libro: il postino me l’ha recapitato verso le 11.30 e prima di pranzo l’avevo già finito. L’oblio della ragione è un libretto corto, che si legge in fretta, ma non per questo banale o superficiale. È diviso in due racconti che in apparenza non hanno molto in comune l’uno con l’altro: il primo, Giustizia, è una storia noir che vede protagonista un condannato a morte alle prese con il suo passato; il secondo, Blackout, un horror fantascientifico, un racconto in cui un’intera famiglia subisce un cambiamento radicale a causa di un incidente.
Come si scoprirà ben presto, però, in realtà queste due storie sono linee parallele ma che si incontrano i diversi punti. Primo tra tutti, cosa succede quando la follia si impossessa della mente di un uomo? Questa è la più palese, ma leggendo con attenzione se ne possono trovare tante altre. Per esempio, può il male che c’è nel mondo a causa degli uomini rompere la sottile barriera che divide la ragione dalla follia? Può la follia stessa spingere a fare cose impensabili? Leggendo questi racconti si hanno tutte le risposte a questi interrogativi.

Diciamo qualcosa in più a proposito di questi due racconti.
In Giustizia troviamo un uomo, un carcerato, un condannato per aver ucciso un altro uomo. Scopriremo che lo ha cosparso di benzina e gli ha dato fuoco. Un semplice gesto folle? Certo che no, si tratta di qualcosa di più: verremo a conoscere, infatti, una storia spaventosa che riguarda il passato dell’uomo: delle violenze subite, una sofferenza inimmaginabile, la morte di una persona cara. E la cosa più terribile: il desiderio di vendetta che conduce alla follia e, in seguito, alla morte.
E poi in Blackout conosciamo Mike, suo figlio, il piccolo Curtis, e sua moglie Diana: una famiglia normale, come tante altre. Ma la normale vita di questa normale famiglia si trasformerà ben presto in un inferno, quando a causa di un incidente Curtis si trasformerà pian piano in un orribile mostro.
Per entrambe le storie, la fine è tragica, da brivido, lascia l’amaro in bocca, ma non solo, perché nella sua tragicità fa riflettere: non si tratta semplicemente di due racconti di follia; in Giustizia e Blackout c’è molto, molto di più.

Dopo aver analizzato il cosa è stato scritto, ora soffermiamoci un poco sul come, sullo stile usato per scrivere L’oblio della ragione.
Come dichiara l’autrice stessa nella presentazione, le sfumature e i tratti tipici dei libri di Stephen King non sono difficili da notare. Come c’era da aspettarsi da un romanzo d’esordio, ci sono alcune piccole pecche stilistiche, ma non ho trovato niente di particolarmente grave. Per esempio, a pagina 14 troviamo scritto:

Mattew Franklin non è una persona molto paziente, e il suo nervosismo comincia già a notarsi.

Una frase del genere è raccontata, oltre che inutile, dato che si capisce dal contesto che Matt è un tipo impaziente e un po’ avventato. Ma da quanto ho visto, questo è soltanto un caso isolato: non mi pare, perlomeno, di aver trovati altre parti raccontate come questa.
Altri difetti veniali sono, per esempio, la punteggiatura usata nei dialoghi:

- Ehi… stai bene? – Chiese Luke allarmato. (pag. 36)

oppure:

- Ti ricordi dove siamo andati la settimana scorsa? Se ti va andiamo lì. – (pag. 38)

Nel primo caso, teoricamente dopo il dialogo andrebbe la minuscola, mentre nel secondo, alla fine non occorre ripetere il trattino. In ogni caso, come ho già detto, si tratta di sviste perdonabili, e che comunque si possono considerare semplici “scelte stilistiche”.
L’unico aspetto “estetico” che proprio non mi è andato giù è stata la carta utilizzata per le pagine: è di un disgustoso giallino-beige, come se fosse carta riciclata. Insomma, capisco che la foresta amazzonica sia in pericolo, ma non mi sarebbe dispiaciuto non dover leggere un libro che sembra essere stato stampato su della carta rimasta a prendere polvere e umidità in una cantina sudicia per anni e anni. In ogni caso, questa scarsa attenzione alla qualità dei materiali non ha influito sul mio giudizio… Però anche l’occhio vuole la sua parte, ahimè.

Parlando dello stile vero e proprio, Chiara Vitetta scrive in modo lineare, diretto, senza troppi giri di parole, ma nonostante la semplicità riesce a essere coinvolgente e a emozionare continuamente il lettore. Il ritmo è sempre incalzante, le descrizioni accurate ma che lasciano ugualmente scorrere la storia senza intoppi. A chi legge vengono presentate continuamente situazioni drammatiche, quasi sadiche, ma non gli viene lasciato il tempo di soffermarcisi tanto sopra: viene quasi costretto a continuare, ad andare avanti, a lasciarsi coinvolgere sempre di più dalla storia. A volte si percepisce una leggera ingenuità e qualche pecca di incoerenza (come dei passi non troppo attendibili), ma è naturale che lo stile di un’autrice così giovane – in ogni caso, ripeto, già piuttosto brava – necessiti ancora di qualche limatura.
Ero indecisa tra le tre stelline e mezzo e le quattro, ma alla fine ho optato per quest’ultime: una mezza stellina è per incoraggiare Chiara a fare ancora di meglio, a dare il massimo. Sono sicura che il suo secondo libro sarà indimenticabile.

Ah, dimenticavo: non potete proprio non fare un salto sul sito dell’autrice. Troverete tanti concorsi per chi ama scrivere, tanti articoli interessanti e divertenti e, soprattutto, un sacco di consigli pratici per gli aspiranti scrittori. Davvero notevole, secondo me.


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