Autore: Fabio Stassi
Editore: Sellerio
Anno: 2012
ISBN: 9788838927645
Formato:
Lingua: italiana
Numero pagine: 279
Prezzo: € 16,00
Voto:
Contenuto: In una sera di Natale la Morte va a trovare Charlie Chaplin nella sua casa in Svizzera. Il grande attore e regista ha passato gli ottant’anni ma ha un figlio ancora piccolo e vorrebbe vederlo crescere accanto a sé. In un lampo di coraggio Chaplin propone un patto alla Vecchia Signora: se riuscirà a farla ridere si sarà guadagnato un anno di vita. Inizia così un singolare balletto con la Morte, e quella notte a salvarlo non sarà la tecnica consumata dell’attore ma la comicità involontaria che deriva dagli impacci dell’età. La questione però è solo rinviata: anno dopo anno, a Natale, la Vecchia tornerà a reclamarlo e bisognerà trovare il modo di suscitarle almeno una risata. Nell’attesa dell’incontro fatale Chaplin scrive una lunga e appassionata lettera al figlio. Vuole raccontargli la storia vera del suo passato, quella che nessuno ha mai ascoltato, ed ecco che dalle sue parole scaturisce l’avventura rocambolesca di una vita e il ritratto di un’epoca rivoluzionaria.
Recensione: Per chi non conosce il vagabondo, questo racconto è il pretesto ideale per accostarsi alla sua figura, e ben venga uno sguardo a Tempi Moderni, al Monello, a La febbre dell’oro e all’insegnamento che da essi si può trarre.
Il libro di Fabio Stassi, finalista al premio Campiello 2013, mette in evidenzia un filo rosso che giunge al cuore della comicità, svelandone in parte il meccanismo. Attraverso essa si rovesciano il mondo, la prospettiva, la realtà. Ciò che fa piangere può indurre al sorriso, ciò che induce al sorriso può spingere alla riflessione:
Se un gigante cerca in ogni modo di aprire una porta e non ci riesce, ma subito dopo la porta si apre a un gatto, a un bambino, a un povero vagabondo o a un vecchio senza nessuno sforzo, noi ridiamo.
Il comico, con un’imprescindibile vena malinconica, lo avvertiamo nella pantomima, nello scherzo, nel senso dietro la mancanza di senso. Di questo ce ne dà un esempio Charlot stesso in Tempi moderni, nell’improvvisare le parole di una canzone (Titina) che non conosce, combattendo la propria personale battaglia contro il cinema sonoro:
Senora pilasina/ voulez-vous le taximiter?/ La zionta su la seata/Tu la tu la tu la wa…
Ecco Charlot nella sua immediatezza. Non servono chiose, né voci, né parole di senso compiuto. L’arte del mimo sovrasta ogni ulteriore significato che possa nascondere l’anima nuda che si agita sul palcoscenico, o davanti la macchina da presa.
Questo basta per comprendere quanto sia arrischiato il progetto dell’autore, mettere le parole in bocca a Charlie Chaplin (non a Charlot, si badi, Charlot è muto) in quella che è una immaginaria, immaginifica autobiografia, la quale segue le tracce di quella autentica.
Ciò che ne segue è un ritratto più che convincente che mischia nell’insieme l’euforia e la malinconia della solitudine:
Ho sempre drammatizzato tutto, e il mio morale non ha mai smesso di oscillare come un’altalena dall’euforia allo sconforto. Mi salvano le persone entusiaste, il loro coraggio, la loro follia, ma lì dentro di chi avrei potuto circondarmi?
Quella di Charlie Chaplin è una vita trascorsa a inseguire le suggestioni di un personaggio, The Tramp (il vagabondo), sposandone la logica che gli ha consentito di aprire le porte al proprio destino e di giocare con la Morte nel corso di sei dialoghi che aprono e chiudono il resoconto delle sue avventure. In questo singolar tenzone Charlie Chaplin riesce, con la comicità genuina e involontaria di Charlot, a guadagnare un anno di vita dietro l’altro. Sei, per l’esattezza.
Le volte in cui Chaplin si sforza di imitare Charlot, riproducendo gag consumate e ricorrenti, la Morte si annoia, sbadiglia, si innervosisce. Il momento culmine sembra giunto quando, all’improvviso, accade qualcosa di imprevisto che strappa alla Vecchia una risata che non è in grado di trattenere.
La Morte indietreggia di un passo e, rispettando il patto, si lascia soggiogare non dall’attore ormai anziano, ma dal suo compagno di strada. Tanto che ci domandiamo di chi mai rida veramente. Della vecchiaia di Chaplin o dell’ombra Charlot che da anni non calca più le scene?
E a chi appartiene – altra domanda non da poco – la vita di cui Chaplin racconta al figlio? È un riavvicinamento, un accostamento tra l’attore e il personaggio da cui non si è staccato del tutto. E il distacco, se mai c’è stato, non è lieve se a un certo punto Chaplin, con un velo di malinconia, considera la propria sorte. Essa ha regalato all’attore un finale che a Charlot è stato sottratto, per definizione oltre che per destino. Gli introiti del successo cinematografico sono andati nelle tasche del primo, non del secondo. Oona ha sposato il primo, non il secondo. I figli sono di Chaplin, non di Charlot. Charlot non ha figli, né famiglia.
Charlot avrebbe rifiutato il denaro, come qualsiasi situazione stabile. Si sarebbe dissolto, riapparendo chissà dove:
Se ti siedi a un tavolo di poker e per una volta hai la fortuna sfacciata di fare banco, è meglio cambiare tavolo, dopo.
Questa la sua filosofia. Di lui, dopo anni, sembra rimasta la macchietta, o nemmeno quella: un paio di calzoni larghi, un gilè e una giacca stretta, un paio di scarpe oltre misura, il bastone di bambù, la bombetta e i baffi finti. Pronti a essere indossati da chi è pronto a incarnarne lo spirito. E non basterà di certo, a Chaplin, vestirsi dell’antica divisa per vincere la nera signora. Serve ben altro.
Insomma: di chi ride, allora, la Morte? Dei malanni di un vecchio signore che si blocca di schiena e non riesce a rimettersi in posa, o dell’ombra di Charlot che, mosso a pietà, per strapparle una risata gli si è seduto sopra?