La corte (L’Hermine), un film di Christian Vincent. Con Fabriche Luchini, Sidse Babett Knudsen, Corinne Masiero, Eva Lallier. Al cinema da giovedì 17 marzo.
Francesissimo film con un immenso Fabrice Luchini quale presidente di corte d’assise alla prese con un processo complicato. Tra i giurati ritroverà la donna di cui si era innamorato. Assai godibile. Però il grande cinema è un’altra cosa. Ma cosa importa, tanto c’è Luchini. Presentato a Venezia 2015, dove ha vinto due premi: quello di migliore attore a Luchini (sacrosanto) e per la migliore sceneggiatura (immeritato). Voto 6, ma 9 a Fabrice Luchini
Ci son dei film che, semplicemente, sono il loro interprete. Questo L’Hermine (l’ermellino indossato dai giudici di corte francesi come il protagonista) è un film che appartiene a Fabrice Luchini, che è Fabrice Luchini. Vederlo all’opera quale presidente d’assise in una città non identificata – una città, tante città – della provincia nord-francese è un godimento, per come alterna l’esercizio dell’autorità ai toni della persuasione, per come entra in aula, quasi salisse – insieme risoluto e tremebondo – sul palcoscenico di una recita di cui lui è l’indiscusso mattatore. Per come esorta, bacchetta, blandisce, si impone o lascia correre a seconda delle circostanze e dei caratteri. Burbero, irascibile, accondiscendente, suadente. Tutti gli sguardi di giurati, avvocati e imputati convergono su di lui, centro e motore dell’azione giudiziaria, e i nostri sguardi con i loro. Grandiosissimo, Luchini – che sia oggi il massimo attore francese? – anche nei momenti privati, alle prese con la moglie in via di diventare ex, a causa di imminente divorzio, o mentre arranca per le strade della città avvoltolato nella sua sciarpa per via della grippe. “No, non mi tocchi, sono influenzato”, ottimo pretesto per poter scansare ogni contatto con gli umani che in fondo lui, ennesima reincarnazione del misantropo molieriano, detesta in blocco o quasi. Lo chiamano il giudice a due cifre, perché ha fama di duro e di comminare pene mai inferiori ai dieci anni. Dovrebbe starsene a letto per via della febbre invece no, come spesso capita agli zitelloni bisbetici ha un attaccamento maniacale al lavoro, ha l’ossessione del dovere e della propria missione sulla terra e quindi, febbre o non febbre, monsieur Xavier Racine si reca imperterrito alla corte a presiedere il processo a carico di un disgraziato – alcolista, tossico, disoccupato e il resto delle sfighe aggiungetele voi che non sbaglierete – accusato di aver ammazzato a calci la figlioletta di sette mesi (di nome Melissa, nome da case popolari anche in Francia). Il regista Christian Vincent non sembra avere ambizioni alto-autoriali, ci tiene a cucire una storia o, meglio, a mettere a fuoco il suo protagonista-feticcio e a creargli intorno una rete di situazioni e occasioni drammaturgico-narrative che ne inneschino e supportino la performance. Nient’altro, e chi (come me) dal cinema si aspetta anche qualcosa, parecchio in più, resta alquanto deluso. Ma forse bisogna dimenticare, si fronte a un film così, certa nostra (intendo mia e di tanti cinefili della mia generazione, mica è un pluralis maiestatis) formazione nouvellevaguistica che ci ha portato a non apprezzare o a sottovalutare il cinema bien fait di papà e pure dei nonni. Il cinema meravigliosamente profondo-francese di Marcel Pagnol, per esempio, con la sua precisione nel tratteggiare caratteri e microcosmi di provincia e far saltar fuori lo spirito nazionale, la francesità. Ecco, L’Hermine si riallaccia a quel cinema, a quella tradizione, e conviene accettarlo per quello che è, e per tutto il buono che ci può dare. Dimenticare Godard (e molti altri). Allora ci si divertirà parecchio nel momento in cui si mettono insieme i giudici popolari, e il loro conoscersi e scambiarsi informazioni, quel che si dice uno spaccato preciso della Francia (dell’Europa?) d’oggi. La disoccupata manco cinquantenne ma con figli e pure nipoti a carico. L’islamica velata accompagnata dalla cugina perché sennò il marito non le dava il permesso. Il qualsiasi monsieur di un qualsiasi piccolo centro. L’algerino immigrato da decenni e integratissimo che si sente più francese dei francesi. E un’anestesista danese di anni 45 sposata, e poi divorziata, in Francia. Il film è spaccato in due, il courtroom movie e le discussioni tra i giurati che sembra a momenti di rivedere (e si spera pure in qualcosa di analogo, ma non sarà così) il glorioso Lumet di 12 Angry Men. Il resto è la corte, inteso stavolta come corteggiamento, che l’inflessibile Xavier Racine fa alla bella danese, la quale scopriamo essere stata la sua anestesista durante un lungo ricovero per una brutta frattura, e fu allora che lui si innamorò di lei, e adesso che l’ha casualmente ritrovata in aula non la vuole più perdere. Il Luchini innamorato è altrettanto irresistibile del Luchini giudicante (“non mi chiami Signor Giudice, ma Signor Presidente!”). Certo, bisogna dire che le due parti non stanno mica insieme e la loro incompatibilità, il loro essere incongrue, è la vera crepa che corre lungo L’Hermine, e che gli impedisce di elevarsi al di sopra del godibile prodotto. Ma c’è Luchini, e tanto basta. Si rivede volentieri la danese Sidse Babett Knudsen, quel che si dice una bella donna, che adoro da quando l’ho vista nel lesbo-thriller ultracitazionista The Duke of Burgundy.
Magazine Cinema
Recensione: LA CORTE. Un irresistibile Fabrice Luchini, e poi non molto
Creato il 18 marzo 2016 da LuigilocatelliI suoi ultimi articoli
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