[Recensione] La donna in gabbia di Jussi Adler-Olsen

Creato il 07 dicembre 2011 da Queenseptienna @queenseptienna

Titolo: La donna in gabbia
Autore: Jussi Adler-Olsen
Editore: Marsilio
ISBN: 9788831708944
Pagine: 461
Prezzo: 18,50€

Forse non lo sapevate, ma sono una delle poche persone al mondo a non aver mai letto Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson. In realtà i thriller procedurali sono un genere che mi piace parecchio, tanto che non mi sono mai fatto mancare la lettura di un romanzo di Patricia Cornwell (quelli degli anni Novanta, non il ciarpame inqualificabile che scrive adesso), Michael Connelly, Kathy Reichs e Jeffrey Deaver, ma ultimamente mi sono orientato su altre letture e così facendo mi sono perso del tutto la Millenium Trilogy. Recupererò. Forse.

In più, devo ammetterlo, pensavo che il proliferare in libreria di titoli firmati da autori scandinavi fosse dovuto, più che al merito dell’opera in sé, a un tentativo di bissare la fortuna di Larsson. In parte sarà anche così, non neghiamolo, ma capita anche che, ogni tanto, si trovi qualche libro più che meritevole.

Non fosse stato per la gentilezza di Marsilio, che ha indetto l’iniziativa “Blogger di tutta Italia: a voi la parola” (e per le minacce di morte dell’eminentissima ac reverendissima webmistress Queenseptienna), probabilmente non avrei mai letto La donna in gabbia di Jussi Adler-Olsen. E mi sarei perso un gran bel romanzo, per la miseria!

Oh cielo, sembra proprio che Ewan stia per parlare bene di un libro. Presto, non perdetevi l’occasione di assistere a questo rarissimo spettacolo! Subito dopo il salto.

La trama

Nel 2002, Merete Lynggard, promettente politica dei democratici, scompare misteriosamente mentre si trova a bordo di un battello. Le ricerche non danno alcun esito e la donna viene presunta morta a seguito di un incidente. Cinque anni dopo, più per calcolo politico che per altro, a Carl Mørck viene affidata la direzione della Sezione Q, un team di detective specializzati nella risoluzione dei casi di alto profilo che in passato nessuno è stato in grado di chiudere. Un team che, oltre a Carl, comprende Assad, un tuttofare siriano.

Noi lettori, però, grazie a una serie di flashback, sappiamo che Merete è sopravvissuta a quel viaggio in traghetto e che ora si trova sotto sequestro, alla mercé di un pazzo che, ogni anno, abbassa la pressione della sua gabbia di un’atmosfera.

Tempo qualche settimana, Carl realizza che la polizia di Copenaghen di cui fa parte non ha indagato proprio come si doveva sul caso Lynggard. Purtroppo Carl non sa che, mentre lui cerca di mettere insieme i pezzi delle ultime giornate di Merete a distanza di cinque anni dalla sua sparizione, il tempo della donna sta per giungere al termine…

In soldoni la storia di La donna in gabbia è questa. Si tratta di un thriller procedurale di impianto estremamente classico, simile alle centinaia di altri romanzi dei già citati Connelly e Deaver o, chessò, a uno dei trecentomila episodi dei vari CSI, NCIS e Law & Order. Il che non vuol dire che sia un romanzo noioso, eh. Anzi, La donna in gabbia riesce a non cadere in quello che secondo me è uno dei problemi principali dei più famosi autori di police procedural, ossia il fissarsi sui problemi famigliari/etici/esistenziali del protagonista anziché concentrarsi su ciò di cui il romanzo dovrebbe parlare, e cioè l’investigazione vera e propria. I momenti dedicati all’indagine, agli interrogatori e alla formulazioni delle mille ipotesi riguardo al destino di Merete Lynggard e all’identità dei suoi rapitori (o assassini) occupano una parte sostanziale della storia, ed è esattamente così che dovrebbe essere. Potremmo definirla una storia che non osa, ma che non disattende nemmeno le aspettative.

In più ho apprezzato l’alternarsi dei punti di vista di Carl (nel 2007) e di Merete (dal 2002 al 2007), che danno al lettore un’idea di cosa stia succedendo indipendentemente dalle conclusioni a cui giunge di volta in volta Carl e, soprattutto, rende necessario in modo drammatico che Carl risolva il caso nel più breve tempo possibile. Le scene che descrivono la prigionia di Merete sono molto inquietanti e, non di rado, riescono ad angosciare il lettore tanto quanto la protagonista. Tanto di cappello ad Adler-Olsen, inoltre, per essere rifuggito dal filone torture-porn che pare vada per la maggiore quando uno scrittore affronta l’argomento della segregazione e della tortura. A Merete è sottoposta a un regime di tortura quasi solo psicologica e il risultato che ottiene è lo stesso di una sanguinosa tortura alla Hostel.

I personaggi

Il detective Carl Mørck viaggia sempre sul filo del rasoio del cliché letterario. Sembra essere l’unico poliziotto in grado di fare correttamente il suo lavoro nell’intero dipartimento di polizia di Copenaghen, è segnato dalle cicatrici fisiche ed emotive di una sparatoria avvenuta nel corso di un’indagine (che ha ucciso un suo collega e ne ha paralizzato un altro, ma ha lasciato lui più o meno indenne), è estremamente burbero, indolente, irrispettoso, rissoso. Insomma, un gioiellino di persona.

Un personaggio a dirla tutta non così eclatante è reso un po’ più umano e gradevole da una famiglia a metà strada tra quella i Malausséne di Daniel Pennac e quella di Non aprite quella porta. Un’irritantissima ex moglie che non è capace di separarsi da lui tanto quanto lui non sa farlo da lei, un figlio che sembra la parodia dei ragazzi nati negli anni ’90 e un coinquilino che a me a tratti ha ricordato Sheldon Cooper di The Big Bang Theory.

A completare il quadro c’è il già citato Assad, un siriano più misterioso di quanto l’aspetto a prima vista innocuo lasci intendere, che sviluppa sin da subito un’interessante rapporto professionale e d’amicizia con Carl.

Insomma, un cast molto vario, in equilibrio tra l’assurdo e il già sentito che, nonostante qualche volta risulti fastidioso oltre ogni possibile scusa (alla tra centesima telefonata dell’ex moglie ero quasi sul punto di urlare a Carl di prendersi un avvocato divorzista o, quantomeno, di blacklistarle il numero di cellulare), sa anche integrarsi a modo con la storia senza sovrapporsi a essa, come altri crime writers hanno il deprecabile vizio di fare. Cough…Patricia Cornwell…Cough!

In conclusione

La donna in gabbia ha i suoi pregi e i suoi difetti. Primo fra tutti (tra i difetti) senza dubbio la sensazione di “niente di nuovo sotto il sole” che pervade tutto il romanzo. Come giallo non è affatto male, però si tratta di un romanzo estremamente classico che piacerà senza dubbio ai conservatori del genere, ma non a chi si aspetta un’innovazione rispetto ai tòpoi del police procedural.

Essendo un romanzo ambientato in Danimarca, a meno di non essere pratici di cultura e società danese, c’è il rischio che tante cose sfuggano. Ad esempio, in alcune parti del romanzo si fa riferimento al mondo politico danese (e la stessa Merete Lynggard a me ha ricordato l’attuale primo ministro danese Helle Thorning-Schmidt, che in precedenza era stata leader dei Socialdemocratici proprio come Merete), ma non sempre si riesce a cogliere tutto. E questo è anche un bene, perché mi è parso di intendere che Adler-Olsen abbia inserito di qua e di là un po’ di frecciatine e di commenti personali sulla politica del suo paese. Non si dovrebbe fare, ma dal momento che non ho idea di come funzioni la politica danese, non me ne sono preoccupato più di tanto.

Ma tutto sommato il libro si è fatto leggere in fretta, senza annoiare. Ci sono situazioni di tensione, scene da seguire attentamente perché permettono di capire chi si cela dietro alla sparizione di Merete (io l’ho capito, voi comprate il libro e fatemi sapere se riuscite a fare altrettanto), e siparietti più leggeri che stemprano la tensione. In definitiva, non un capolavoro nel suo genere, ma un romanzo più che piacevole.

Voto finale


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