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[Recensione] La Grande Bellezza (di Paolo Sorrentino, 2013)
Creato il 07 marzo 2014 da Frank_romantico @Combinazione_CNon amo il cinema italiano. Quello contemporaneo pochissimo, quello dei tempi d'oro a tratti. Ci sono invece film italiani che amo e sono quasi tutti vecchi ma, nella sua totalità, il cinema italiano mi indispettisce. Per il livello degli attori, per il livello dei registi, perché il cinema di genere sopravvive solo nel circuito indipendente. Perché il cinema italiano è sempre uguale, non cambia mai, fagocitato da uno stile televisivo perché la televisione è quella che vende. E, ammettiamolo, perché un tempo avevamo dei fuoriclasse in patria e adesso può darsi di sì ma... è difficile dirlo! Sorrentino, ad esempio, sicuramente lo è. Un fuoriclasse, intendo. Uno i cui film possono pure non piacere, ma che possiede una propria poetica e un proprio stile, una tecnica e la capacità di non ripetersi. Mai. Ma quando uscì nei cinema La Grande Bellezza io decisi di non vederlo, non ritenendo quel genere di film nelle mie corde.
Poi La Grande Bellezza ha vinto l'Oscar, Paolo Sorrentino è stato salutato come eroe in patria, il film è stato trasmesso in tivù e la gente l'ha fatto a pezzi sul web e non solo. Atteggiamento che io non concepisco per il modo in cui è stato espresso. Quindi più per curiosità che per altro, alla fine, La Grande Bellezza è passato anche sullo schermo del mio televisore.
Jep Gambardella è uno scrittore napoletano trapiantato a Roma. Il romanzo della sua giovinezza, L'apparato Umano, è solo un lontano ricordo e ormai i mestieri di Jep sono due: giornalista di successo e re della mondanità romana. Ma, tra passato e presente, sacro e profano, dopo aver compiuto sessantacinque anni, Gambardella comincia a mettere in dubbio la sua vita e la società di cui è indiscusso rappresentante.
La Grande Bellezza è un film immenso e immensamente incompiuto. Una storia che non ha né inizio né fine, che si protrae come la vita di un uomo, come la vita di una città, come quella di una nazione o dell'umanità intera. Un film con ovvi intenti moralistici fatti da uno che la morale non può nemmeno permettersi di farla. Il ritratto di una società in declino, la ricerca di quella bellezza ispiratrice che ormai sembra essere fuggita via, nauseata dalla falsità e dall'apparenza. Perché per Sorrentino gli uomini sono tutte maschere che nascondono la loro sconfitta. E in La Grande Bellezza gli uomini sono maschere che si ostinano a continuare una commedia grottesca che non fa ridere più nessuno. Quindi il film, alla fine dei conti, è la storia di una città e di un pezzo di umanità raccontata con intenti visivi e non narrativi, con lo stile frammentato di un mosaico osservato dagli occhi disillusi del protagonista/narratore, interpretato da un Tony Servillo a dir poco straordinario.
Jep è il rappresentante di un sistema malato, sull'orlo del disfacimento. Ne fa parte, lo incarna. Lui non è semplicemente un mondano, lui è il re dei mondani, colui che passa da una festa all'altra, da un trenino all'altro, che vive di notte e non sa nemmeno cosa una persona normale faccia la mattina. Ma, a un certo punto, avviene un cambiamento. Compie sessantacinque anni e un parte di lui muore. A morire è il suo passato, il suo unico vero amore, l'unica parte della sua vita sincera e felice. Il che risveglia lo sguardo cinico di un uomo che, completamente immerso nel sistema, a un certo punto si ritrova a guardarlo con occhi estranei, dal di fuori. Così inizia a raccontare la crisi morale e sociale di un mondo. Uno dei problemi del film, forse e secondo me, è il fatto che tutto questo non venga fatto intuire ma ci venga sbattuto in faccia attraverso i monologhi fuoricampo del protagonista. Intorno a lui personaggi/macchiette intrappolati nelle loro maschere o nel vuoto che sta dietro di queste. Tutti interpretati da attori che non ci aspetteremmo: un Carlo Verdone deluso da Roma, la città che ama ma da cui non è ricambiato, una Isabella Ferrari che cerca se stessa in autoscatti che poi condivide su Facebook, una Serena Grandi sfatta e obesa, ricordo di un passato che non esiste più. Una Sabrina Ferilli streepper fuori tempo massimo. Tanti altri, forse troppi, chissà. Un esercito di persone perse che non sanno di essere perse, vagoni di un treno che non va da nessuna parte.
Paolo Sorrentino si ispira e cita Federico Fellini. Non solo, per come la vedo io: c'è anche lo Stanley Kubrick di Eyes Wide Shut e lo sguardo Fuori Orario di Martin Scorsese. C'è il più volte citato Celine. Ma la presenza (ingombrante) di Fellini è palese, tra La Dolce Vita e 8 1/2. Ma Sorrentino non è Federico. Lo scrittore bolognese trapiantato a Roma era un poeta ma anche un artista visivo, un disegnatore e un caricaturista. La sua visione del mondo era si grottesca ma anche ironica e autoironica. Caricaturale, surreale. Sorrentino è invece violentemente grottesco. E' narrativo anche quando si avvale solo della potenza delle immagini. Anche lui cerca delle risposte ma, a differenza di Fellini, alla fine le trova. Il problema è che le trova in un finale in cui Gambardella si confronta col sacro rappresentato da Suor Maria "La Santa" (Giusi Merli) e che quasi non ha senso se confrontato con il resto del film.
La Grande Bellezza è un film che può benissimo non piacere. Visivamente bellissimo, tecnicamente ineccepibile, incorniciato dalla grande fotografia di Luca Bigazzi e dalle musiche selezionate da Lele Marchitelli. Ma può non piacere. Perché ho già spiegato cosa penso nella recensione. Perché narrativamente ingarbugliato e forse privo di unità coesa. Perché caratterizzato da dialoghi bruttissimi e monologhi tanto belli quanto ingombranti. Perché frettolosamente concluso. Forse privo di epicità umana. Perché racconta la modernità con uno sguardo che di moderno, secondo me, non ha molto. Tanti motivi per non amarlo, questo film. Non è una colpa non amarlo. La vera, grande colpa, è liquidarlo frettolosamente come è stato fatto da tanti dopo che Canale 5 lo ha trasmesso in prima serata. Perché, nonostante tutto, La Grande Bellezza è un film immenso e forse noi non ci siamo più tanto abituati.
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