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Recensione: LA GRANDE SCOMMESSA. Come fare soldi con la crisi dei subprime

Creato il 09 gennaio 2016 da Luigilocatelli

THE BIG SHORTLa grande scommessa (The Big Short), un film di Adam McKay. Con Christian Bale, Ryan Gosling, Brad Pitt, Steve Carell, Melissa Leo, Marisa Tomei, Selena Gomez, Margot Robbie, Anthony Bourdain.
155473THE BIG SHORTSembrava impossibile realizzare un film sulla crisi dei mutui subprime e il successivo crollo del 2007. Ma Adam McKay ci riesce brillantemente, raccontandoci di un pugno di personaggi che intuirono quanto stava per succedere e ci scommisero sopra: vincendo. In fondo, si tratta di un disaster movie con i soliti pochi illuminati a capire la minaccia: solo con il collasso dell’economia al posto dello squalo-gigante o dell’eruzione vulcanica. Il regista ne inventa di ogni per rendere digeribile la complessità dei meccanismi finanziari, e firma un film che osa parecchio e distrugge parecchie convenzioni. E che però non ce la fa a evitare il rischio del populismo. Avviso ai risparmiatori: se già il caso Etruria ha agitato i vostri sonni, evitate la visione di questo film. Voto 7+
416498THE BIG SHORTUno dei film più sorprendenti e meno scontati di questa stagione cinematografica. Per quanto ci racconta e per come lo fa. Mica un capolavoro, intendiamoci, anzi con parecchi difettacci anche fastidiosi, a partire dalla dose oltre il consentito e il sopportabile di populismo antisistema e anticasta (siamo in America, ma la cattiva musica, anzi la cacofonia, è sempre la stessa delle urla di indignazione a basso prezzo di Italia e resto d’Europa), tutto un dalli agli sporchi finanzieri speculatori e alle banche e alle agenzie di rating e ai signori del denaro e allo sporco turbocapitalismo e ai poteri forti (ma quali?). Che, vedendo questo La grande scommess, a momenti par di sentire in versione debitamente aggiornata e antiglobalista il vecchio, tremendo urlo primo Novecento delle plebi e delle peggiori propagande totalitarie contro il complotto plutocratico mondiale, e allora vien la pelle d’oca, ecco. Dite che non c’entra niente, che sto paranoicizzando? Invece c’entra, temo, e certi echi che vengono da lontano son segnali di allarme che non andrebbero trascurati. Ma tiremm innanz con la recensione, e mettiamo in standby certi cupi retropensieri. Riconoscendo tanto per cominciare al regista Adam McKay di aver avuto un bel coraggio. La grande scommessa del titolo (italiano, visto che l’originale vuol dire altro, anche se non ho capito esattamente che cosa: roba da gergo d’alta finanza) l’ha fatta lui, tentando un’operazione al limite dell’impossibile, ovverossia cavar fuori un film in grado di appassionare il pubblico da un libro scritto da Michael Lewis, The Big Short, sulla grande crisi finanziaria del 2007-2008, quella entrata negli annali come la crisi dei mutui subprime (alzi la mano che sappia definire con accettabile approssimazione cosa siano questi benedetti subprime). O meglio, libro che racconta come alcuni personaggi – speculatori, investitori in proprio e per conto d’altri, gestori di fondi, ecc. – avendo intuito come il sistema stesse collassando avessero deciso di puntare i loro soldi contro i mutui subprime e i vari prodotti tossici da quelli derivati, guadagnando al momento del crollo una paccata di dollari mentre altri finivano rovinati. Ora, che una storia di soldi e di finanza, per quanto raccontata attraverso vite e persone, sia diventata un film discretamente appassionante è cosa abbastanza straordinaria, ed è il maggior merito del regista, degli sceneggiatori e dei produttori. Che peraltro non hanno dissodato un terreno del tutto vergine, essendoci state negli ultimi anni almeno un paio di altre cinenarrazioni – di serie tv non saprei – su e intorno al tema della crisi finanziaria e dei pericoli del denaro liquido, libero e incontrollato, prima Margin Call di J.C. Chandor poi il celebratissimo (e un filo sopravvalutato) The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese. Anche se le affinità di questo The Big Short son più con il film (bellissimo e in Italia assai trascurato) di Chandor, che pure trattava del crollo del 2007, visto attraverso gli uomini e le loro storie incrociate e sovrapposte all’interno di una banca d’investimenti di Wall Street. Stavolta però si va oltre, il denaro nelle sue multiformi e anche pericolose incarnazioni e reincarnazioni in forma di prodotti finanziari è davvero il focus del racconto, e il protagonista vero per quanto immateriale e invisibile se non attraverso cifre e schermate. Un protagonista prepotente, al centro anche di ogni trama, discorso e dialogo. Le parole spese in questo film appartengono in parte grandissima all’impervio campo semantico del gergo economico e finanziario. Ed è tutto un parlare non solo di mutui subprime, ma pure di credit default swap, di CDO (collateralized debt obligations). La scommessa degli autori è di rendere innanzi tutto intellegibili al grande pubblico privo di ogni minima educazione finanziaria (soprattutto in Italia, i cui risparmiatori son risultati in una recente ricerca comparativa tra i paesi industrializzati all’ultimo posto come conoscenzed’economia) quello che i protagonisti stan tramando o, semplicemente, di cui stanno parlando, poi di farne materia di spettacolo e fonte di narrazione. Ci riescono? Abbastanza, anche se star dietro ai dialoghi, spesso scambiati e perfino sovrapposti alla velocità della luce come nelle più scatenate screwball comedy, richiede una certa applicazione e concentrazione, e spesso ci si perde. La quasi impossibile operazione riesce a Adam McKay e al suo cosceneggiatore Charles Randolph anche per l’astuzia di adottare un modello narrativo pareccchio consolidato e sempre vincente, quello dei disaster movie in cui alcuni illuminati e/o coraggiosi capiscono prima di altri quel che sta accadendo, ma non viene ascoltato. Con la differenza che stavolta il pericolo non è il megasqualo o il terremoto o l’eruzione vulcanica o i piranha mutanti, ma lo scoppio della bolla dei subprime. Qualcuno, mentre gli altri festeggiavano sull’orlo dell’abisso, ha intuito, e lo ha intuito scrutando attentamente i segnali che arrivavano dal fondo limaccioso della finanza più oscura e opaca. I mutui, sottoscritti anche dall’America più povera vogliosa di farsi finalmente una casa in proprio, stanno diventando sempre più onerosi, e chi li ha contratti non ce la fa a pagare gli interessi crescenti. I casi di famiglie in default si moltiplicano ed ecco che lo stravagante manager di un hedge fund di nome Michael Burry, uno che si veste come un nerd barbonizzato e con un occhio sifolo (lombardismo anni Cinquanta-Sessanta), uno cui francamente si farebbe fatica ad affidare i propri risparmi (è un Christian Bale strepitoso come sempre quando si ritrova alle prese con personaggi laidi e bisunti: vedi American Hustle), intercetta col suo ultrasensibile sismografo psichico quanto va a succedere, e contro il parere di tutti, compreso il responsabile dell’hedge fund, decide di puntare sui credit default swaps. Che sono, semplifcando parecchio, una specie di assicurazione contro il crollo dei subprime e dei suoi derivati che nessuno pensa rientri nell’ordine del possibile. Come lui altri personaggi in altri parti d’America pre-sentono il crollo e puntano sugli swaps. Un altro hedge fund manager di nome Mark Baulm – uno strepitoso Steve Carell, il più bravo di tutti in un cast di bravissimi -, il furbo trader Jared Vennett (Ryan Gosling). E due ragazzotti che han messo su dal niente la loro aziendina di trading e investimenti e adesso fiutano la grande occasione e scommettono sul crollo: dopo aver interpellato un guru della speculazione ritiratosi da tempo per disgusto di quel mondo che è poi Brad Pitt, perfetto pure lui. Sappiamo già cosa succederà, questo è uno di quei film in cui la storia è già stata scritta dalla cronaca e non può riservarci sorprese, eppure restiamo lo stesso incollati alla poltrona a vedere se i nostri eroi (insomma) vinceranno o perderanno. Gran risultato, tenendo anche conto del fatto che non si tratta di personaggi di massima simpatia (si va dal laido all’avido al furbastro, in una costellazione umana non così esaltante, e comunque il meglio di tutti è il Baum di Carell, uno che – dicono di lui – da piccolo studiava e ristudiava il Talmud per beccare le incongruenze e vedere se Dio entrava in contraddizione con se stesso). E però, in questo film populista, il pubblico non può che stare dalla loro parte e in parte identificarsi nella loro guerra privata contro il Grande Moloch del Sistema Finanziario. Rappresentato dai fondi, dalle banche di investimento conosciute e conclamate, dalle agenzie di rating. Ci fan tutti una pessima figura, o per la stolidità di non rendersi conto dell’onda in arrivo, o in quanto complici e collusi nel sistema. E a uscire peggio sono le agenzie di rating, citate peraltro con i loro nomi e cognomi (immagino che il lavoro degli avvocati dietro a La grande scommessa sia stato lungo e certosino), accusate senza troppi giri di parole di aver scientemente assegnato una valutazione alta a prodotti che sapevano benissimo essere tossici. Il bello del film sta nel suo coraggio, perfino nella sua improntitudine che sfiora la provocazione goliardico-demenziale. Adam McKay mischia i generi e i linguaggi, passa dai complicati intrighi economici alla commedia più scatenata e sgangherata, adottando uno stile e un approccio sporchissimi, con macchina da presa mobile e isterica a inseguire i suoi survolati personaggi, e scompigliando le carte e i codici e i modi e le convenzioni di tanto cinema americano mainstream e anche indie. Con i personaggi che si rivolgono brechtianamente allo spettatore  e con ancora più brechtiane scritte-didascalie (del resto, a pensarci bene, di cinema profondamente didattico e pure politico si tratta), con un voice over a fornire spieghe e perfino con i cameos di alcuni famosi in siparietti che in forma di scherzo o racconto o paraboluccia o spicciola metafora cercano di tradurre a uso del pubblico i passaggi più complessi, e sono Selena Gomes, la bellona Margot Robbie (carnale omaggio e clin d’oeil di McKay a The Wolf of Wall Street, dove la Robbie era la moglie di DiCaprio) e il guru itinerante dello street food Anthony Bourdain. Un film che spezza molti codici e molto inventa, e vince alla fin fine la su scommessa. Se solo non fosse per quella maledetta puzza di cattivo populismo che qua e là si fa sentire. Accolto da ottime reviews in America, The Big Short è adesso in corsa per i premi maggiori, e stiamo a vedere come andrà con gli Oscar, le cui nomination verranno comunicate tra pochi giorni (martedì 14 gennaio). Certo che sembra un film fatto apposta per intensificare le paranoie dei risparmiatori italiani già assai impauriti e provati e scossi dalla storia delle obbligazioni subordinate della Banca Etruria. Se avete investito in prodotti finanziari, sappiate che La grande scommessa vi agiterà parecchio e non vi farà dormire molto bene: andateci preparati.


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