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Recensione. LA LEGGE DEL MERCATO: perdere il lavoro a 50 anni. Grande Vincent Lindon

Creato il 28 ottobre 2015 da Luigilocatelli

2c397355d2bc9fa0079db454025e0a3dLa legge del mercato (La loi du marché) di Stéphane Brizé. Con Vincent Lindon, Yves Ory, Karine De Mirbeck. Al cinema da giovedì 29 ottobre 2015.
2a6408dfd25607a1c598eb49b7cdbaf7Passo dopo passo, la crisi di un cinquantenne che perde il lavoro, si sottopone a trafile umilianti per trovarne un altro, rischia di perdere tutto. Finché arriva un posto come vigilante. Film onesto e rigoroso che vuole, semplicemente, raccontare il problema di tutti i problemi oggi, la disoccupazione. Come l’anno scorso i Dardenne di Due giorni, una notte. Non siamo a quei livelli, ma La legge del mercato è un film da rispettare. Grandissimo Vincent Lindon, giustamente premiato a Cannes come migliore attore. Voto 7 e mezzo
7ffd478d02515888a9de37b3e354cc27Del francese Stéphane Brizé non mi aveva convinto per niente il precedente Quelques heures de printemps dato un quattro anni fa a Locarno, dove un cinquantenne accompagna la madre malata a farsi l’eutanasia in Svizzera. Con un titolo poi così didascalico e militante, tra Syriza e Podemos, come La legge del mercato, mi aspettavo da questo film (prima di vederlo a Cannes lo scorso maggio) la solita lagna e invettiva contro la troika, il capitalismo, la globalizzazione, il capitalismo finanziario e quant’altro. Invece a La loi du marché son bastate le prime sequenze per convincermi. Sì, certo, Brizé costruisce meticolosamente e quasi brechtianamente il suo apologo-atto d’accusa contro l’ipercapitalismo arrembante nella sua versione più liberistica, ma grazie a Dio lo fa attraverso la messa in scena di un racconto esemplare quanto avvincente, con un protagonista cui non puoi non affezionarti, con un’aderenza impeccabile a quanto sta succedendo in decine di milioni di famiglie d’Europa colpite dalla disoccupazione. Thierry, anni 51 – un meraviglioso Vicent Lindon mai così bravo, di commovente dignità anche nei momenti più disgraziati – perde il lavoro, e cominciano le strategie di sopravvivenza, gli affannosi tentativi per stare a galla, con un mutuo ancora da pagare e un figlio disabile e assai capace a carico che ha per obiettivo quello di entrare alla facoltà di biologia, e dunque bisognoso di costoso supporto. La trafila dei colloqui di lavoro, dal vivo o via Skype, con algidi interlocutori di quella branca aziendale detta risorse umane, ma pià disumane che umane, e spesso incarnata da gente futile quando non proterva. La cortesia dei reclutatori sotto cui si cela la durezza e spesso la brutalità, le contrattazioni con il possibile nuovo datore di lavoro che tenta in ogni modo di tirar giù il prezzo e ottenere la massima disponiblità (“accetterebbe una posizione inferiore a quella che occupava prima?, “è disponibile a orari flessibili?”). E i corsi di formazione. E – agghiacciante – una seduta su come presentarsi nel miglior modo ai reclutatori e fare la giusta impressione (“attento al linguaggio del corpo!”), sintomo dell’abisso e del vuoto cui siamo arrivati nella gestione delle risorse disumanizzate in occidente. Si procede per blocchi, ognuno autonomo, ognuno con un pezzo di vita di Thierry didascalicamente, dimostrativamente esposto. La ricontrattazione del mutuo e la richiesta di un prestito in banca, la vendita della roulotte per tirar su qualche migliaio di euro. Fino all’assunzione come vigilante in un centro commerciale, alle prese con taccheggiatori e povere ladre di tessere-sconto. Naturalmente viene in mente Due giorni, una notte dei Dardenne, film partito proprio da Cannes due anni fa e già diventato un classico del cinema di questa decade. Brizé non ha lo stile così forte e riconoscibile dei fratelli belgi, non ce la fa a ricreare come loro un mondo a parte di esclusione e sofferenza, non è soprattutto uno storyteller alla loro altezza. Ma non è un regista qualunque, è di quegli autori che credono ancora generosamente nella possibilità di rappresentare la realtà e magari di poterla un po’ cambiare. Diciamo, un Guédiguian dei momenti migliori, ecco. E il suo film così onesto si imprime nella memoria e in quella cosa che un tempo si chiamava coscienza, e non va più via.


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