Il
peccato più sciocco del diavolo è la vanità.
Titolo:
La ragazza nella nebbia
Autore:
Donato Carrisi
Editore:
Longanesi
Prezzo:
€ 18,60
Numero
di pagine: 373
Sinossi:
La
notte in cui tutto cambia per sempre è una notte di ghiaccio e
nebbia ad Avechot, un paese rintanato in una valle profonda fra le
ombre delle Alpi. Forse è stata proprio colpa della nebbia se l'auto
dell'agente speciale Vogel è finita in un fosso. Un banale
incidente. Vogel è illeso, ma sotto shock. Non ricorda perché è lì
e come ci è arrivato. Eppure una cosa è certa: l'agente speciale
Vogel dovrebbe trovarsi da tutt'altra parte, lontano da Avechot.
Infatti, sono ormai passati due mesi da quando una ragazzina del
paese è scomparsa nella nebbia. Due mesi da quando Vogel si è
occupato di quello che, da semplice caso di allontanamento
volontario, si è trasformato prima in un caso di rapimento e, da lì,
in un colossale caso mediatico. Perché è questa la specialità di
Vogel. Non gli interessa nulla del dna, non sa che farsene dei
rilevamenti della scientifica, però in una cosa è insuperabile:
manovrare i media. Attirare le telecamere, conquistare le prime
pagine. Ottenere sempre più fondi per l'indagine grazie
all'attenzione e alle pressioni del "pubblico a casa".
Santificare la vittima e, alla fine, scovare il mostro e sbatterlo in
galera. Questo è il suo gioco, e questa è la sua "firma".
Perché ci vuole uno come lui, privo di scrupoli, per far sì che un
crimine riceva ciò che gli spetta: non tanto una soluzione, quanto
un'audience. Sono passati due mesi da tutto questo, e l'agente
speciale Vogel dovrebbe essere lontano, ormai, da quelle montagne
inospitali. Ma allora, cosa ci fa ancora lì?
La recensione
Faceva
freddo come adesso, più di adesso, e il bavero del giaccone non
bastava a ripararmi dal vento. Dopo anni ci si abitua – all'umido,
alle nuvole pesanti – ma la pioggia, in quel weekend a un passo
dalle feste, si infilava con impegno negli occhi, sotto la pelle.
Spaccava le ossa, una ad una. Fulmini e saette, percussioni ritmiche
e riflettori accesi, per uno scenario degno di un noir da manuale.
Ogni storia da brivido trova il suo inizio in una notte buia e
tempestosa. Ogni presentazione di Donato Carrisi meriterebbe perciò
un cielo a tema. Una nerissima visione da fine del mondo. Ricordo i
brividi di febbre passeggera del ritorno a casa, in autobus, e il
piacere di un incontro sorprendente – se avete letto il mio post,
all'epoca, è un po' come se ci foste stati anche voi, con me –,
insieme alla sensazione che il cattivo tempo avesse disturbato,
stranamente, anche l'autore: uno che, per lavoro, gioca con le ombre,
ma a cui poi manca il sole pugliese; uno che maneggia argomenti
grevi, sempre con i guanti bianchi, e che in privato – o davanti al
suo pubblico di lettori affezionati –
si scopre leggerissimo. Donato Carrisi, di persona, è meno tenebroso
che in foto: alto come me, più o meno, e dal sorriso facile.
Soprattutto, non si lascia scoraggiare dalle bizze dei microfoni: le
interferenze tecniche o la presenza, in libreria, di un pubblico che
chiacchiera e gli scatta foto non lo turbano. Ci sono scrittori
schivi e scrittori, invece, che sanno modulare frasi significative e
creare immagini indelebili anche così, all'impronta. Donato Carrisi
lavora con le parole, che siano d'inchiostro o di fiato poco importa.
E con quelle stesse parole, in unione a innate capacità di uomo di
spettacolo, aveva catturato il pubblico – perfino mio fratello,
all'inizio preso dai suo acquisti – in un'ora in cui si
parlava del più e del meno, del processo creativo, dei gialli di
cronaca. “Ricordate tutti la Strage di Erba, i coniugi Romano”,
aveva domandato, “ma scommetto che nessuno terrà
più a mente un particolare. Il bambino ucciso, come si chiamava?”.
I nomi – arabi, perlopiù, giacché ci si ricordava tutti un bimbo
dai profondi occhi scuri e il suo sospetto padre tunisino –
volavano come i numeri a tombola.
“Youssef”, aveva rivelato
infine. L'incontro si era concluso con una riflessione dolente – il
ricordare i colpevoli, ma non le vittime quanto ci rende complici? -
e un'anticipazione che non avevo saputo cogliere. A un anno di
distanza, infatti, Donato Carrisi torna con La ragazza nella
nebbia. Storia nuova con un
vecchio interrogativo che si risveglia, all'ora delle streghe. E se
mettersi sulle tracce di una ragazza scomparsa avesse minore priorità
rispetto all'altro tarlo che logora: assicurare alla giustizia – e
alle brame delle telecamere – un mostro? E se una storia, in
realtà, la scrivessero i cattivi, con atti esecrabili che sovvertono
gli equilibri, e non i buoni, povera gente dall'esistenza tranquilla?
Abbiamo visitato, con lui a farci da Cicerone, un girone infernale
senza confini e la Città Eterna.
Abbiamo avuto professionisti dalle
abilità fuori dalla norma – l'instancabile Mila, il penitenziere
Marcus –, che sul male hanno formulato ipotesi schiaccianti;
organizzato cacce. La bruma che si dirada a valle ci restituisce la
foto di un paesino all'ombra delle Alpi. Avechot è un presepe
immaginario su cui il Padreterno ha fatto cadere la neve, a fiocchi
grossi, e un'inaspettata fortuna: si è fedeli al denaro e alla
religione, da quando le ricchezze del sottosuolo hanno allontanato i
turisti e i cantieri a cielo aperto hanno sottratto spazio vitale
agli splendori naturali. Sembra Cogne. Quando il Natale chiederebbe a
tutti di essere più buoni, quando il bianco è troppo bianco per il
nero della cronaca, la sedicenne Anna Lou scompare nel nulla: ha un
diario segreto in cui scrive di gatti e perline, una famiglia
profondamente religiosa, i capelli rossi. Si parte dalla fine – il
protagonista, confuso, è sotto interrogatorio – ed è il suo
racconto al Dottor Flores, in un magistrale alternarsi di punti di
vista e piani temporali, che scioglie, poi, il mistero de La
ragazza nella nebbia. Sul
romanzo, da parte mia, pesavano alte aspettative: superfluo dirlo.
Con Carrisi – uno di quegli autori di cui non mi stanco – cerco
la lettura del
thriller dell'anno, non di un
thriller, e, prima o poi, lecito incappare non in una delusione, ma in un romanzo
vagamente sottotono. Anche se dispiace ammetterlo, abituati al
meglio sin da un esordio indimenticabile. Lo stile resta
riconoscibile, la struttura cambia. Si assottiglia, si semplifica:
non ha, questa volta, tanti fuochi. Un unico perno – Chi
ha ucciso Anna Lou? come Chi
ha ucciso Laura
Palmer? - e il confrontarsi,
dopo intrecci machiavellici e bambole russe di tranelli, con il
giallo tradizionale. Sembrerebbe prendere fiato tra due serie – e,
dunque, da quei polizieschi tridimensionali, difficilissimi,
ad incastro.
Un gioco da ragazzi. Invece, ragionandoci, si nota
che è meno semplice di quanto appaia: stupire con poco, anziché
intrattenere con tanto. Carrisi stupisce e intrattiene, non dimentica
le regole base del suo straordinario successo, ma – fino alla fine,
anche davanti alla sue quasi quattrocento pagine – ho conservato
l'impressione di un racconto lungo, di un esercizio ben
portato a termine. Ho fatto le ore piccole per finirlo – con,
fuori, le stesse atmosfere dello scorso anno e, tra le pagine, lo
stesso Carrisi padrone – ma mi è mancato il colpo di scena
eclatante, il brivido, in un ultimo capitolo frettoloso che, per la
prima volta, non mi ha lasciato a bocca aperta. Se le risposte al
caso mi sono sembrate modeste, La ragazza nella nebbia è
interessante, molto, per le riflessioni sulla morte ai tempi dei
mass media. I misteri dello storico Twin Peaks, gli
uomini qualsiasi del Sospetto
di Vinterberg, vessati dalle occhiate di fuoco del vicino di casa, e
un quid – in questo caso, il sezionare la materia fragile di cui
sono fatti i talk show, penna e telecomando alla mano – che è
inequivocabilmente suo. La trama si fa circostritta, ma il male,
chiodo fisso, rompe di nuovo gli argini. E l'agente speciale Vogel,
che eppure dovrebbe combatterlo, lo coltiva con dedizione sotto le luci della ribalta. Non integerrimo uomo d'azione, ma mestierante
dotato di sangue freddo e tratti telegenici, cercherà di offrire
alla telecamera un colpevole – un mite professore di lettere con la
sfortunata di non avere un alibi abbastanza solido – e il suo
profilo migliore. Non cerca prove, ma indizi, con l'aiuto del giovane
Borghi, di una giornalista d'assalto che gli ha rovinato la reputazione e di
una giacca di cachemire – sotto: camicia inamidata, gemelli d'oro,
cravatta di seta – per combattere il clima rigido, e nascondere le
macchie di sangue altrui. Qualche sbavatura c'è – i colori del
giallo, a volte, diluiti nel mare magnum del realismo – ma tanto si salva dalla nebbia della mia memoria. I lumi e i
peluche. Un regalo mai scartato, con ancora il fiocco in cima, e un
albero puntato verso la finestra, come un faro per i
naviganti – e in città così piccole è assurdamente facile smarrirsi. I
reporter, come gli avvoltoi, che avvertono l'odore dello scoop, pare ricordi quello rugginoso del sangue, e iniziano a volteggiare su
Avechot, in cerchi implacabili e perfetti. Non ci si prende la briga
di cercare la vittima, data per spacciata sin dalle prime ore, ma il suo assassino. Per santificare Anna Lou e dare a quel borgo
spuntato da una fiaba, all'improvviso scena del crimine, la
sua pace. La stampa adora i finali lieti, per quanto possibile, e
l'illusione dei mostri.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Negramaro – Io non lascio traccia