[Recensione] La trappola e la nudità di Walter Mauro e Elena Clementelli

Creato il 28 gennaio 2013 da Queenseptienna @queenseptienna

Titolo: La trappola e la nudità
Autori: Walter Mauro, Elena Clementelli
Editore: Giulio Perrone editore 
Anno: 2012
ISBN Libro: 9788860042286
Num. Pagine: 256
Prezzo: 14,00 € 
Voto: 

Contenuto: (retrocopertina) La lunga trafila di scrittori che abbiamo incontrato nei nostri viaggi, è un nugolo di vittime in lista d’attesa per il volo aperto, senza speranza, verso la storia: Carlo Levi che chiede notizie di Pablo Neruda appena ci vede (e Neruda era già morente a Santiago, la sua casa già profanata e devastata dai fascisti), e Rafael Alberti che diventa un bersaglio fisso per l’anonimo speaker della radio, inconsapevole nunzio di tragedie e James Baldwin che parla di una trappola entro cui sono tutti insieme, e si difendono tutti alla stessa maniera, contrapponendo al mostro la propria nudità, una congenita sprovvedutezza, una amara precarietà d’astuzia, rappresentano solo alcuni “casi”, ai quali se ne potrebbero aggiungere degli altri, e poi altri ancora, per una verifica all’infinito.

Recensione: Che rapporto vi è tra lo scrittore e il potere? Si tratta di un argomento curioso e difficile, poiché presuppone una ricerca storica non indifferente. In primo luogo esige una definizione, tanto del potere quanto dello scrittore.

Definire il potere è complicato. In via introduttiva Walter Mauro, tra le mille e più definizioni che si possono cogliere nella storia delle idee, si accontenta di proporre i tre tipi puri del potere legittimo o razionale, e in ciò attingendo al pensiero di Max Weber (potere razionale – legato alla legalità formale; tradizionale – la cui obbedienza è legata a una designazione derivante dalla tradizione; carismatico – legato al carisma individuale). L’esistenza del potere è una necessità imposta dalla ragione affinché ne cives ad arma veniant. Lo scopo è impedire l’eterna lotta di ciascuno contro tutti, creando un ordine o almeno la sua parvenza. Come si ricorda, i fondamenti del potere cambiano di età in età, di periodo in periodo (la religione, il prestigio militare ecc…).

Insomma: il potere è un indefinibile e al di là dei tomi di filosofi e di cultori delle materie giuridiche non è facile venirne a capo. Posso confermarlo tranquillamente io stesso che sul potere, e in particolare sui suoi limiti, ho dato la tesi di laurea (dal titolo: Il principe e la legge nel pensiero di s. Tommaso d’Aquino, la metà della quale o quasi era dedicata a questioni terminologiche).

Altrettanto complicato, se non di più, è definire l’arte dello scrivere, la figura dello scrittore (o dell’intellettuale che dir si voglia). Le difficoltà aumentano soprattutto in un libro come questo, dove più che delle opere, si racconta di coloro che le hanno scritte, di persone in carne e ossa. Nelle interviste qui raccolte gli autori parlano e non scrivono. Sennonché, per la molteplicità di voci e di punti di vista, le definizioni non servono. Le storie e gli esempi tratti dalle memorie degli intervistati e dell’intervistatore si esprimono da sé.

Senza tanti giri di parole il potere, che lo si definisca o meno, si fa sentire quando avvolge con i suoi tentacoli chi ne sia soggetto, come ben esprime l’incipit del Processo di Kafka ricordato nell’introduzione da Walter Mauro. Ciò a riprova che la letteratura giunge al cuore delle cose prima dei concetti laboriosamente costruiti:

Qualcuno deve aver calunniato Joseph K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato.

Qui emerge smarrimento, incredulità e incomprensione per l’impatto dei lacci della legge.

In Kafka il potere ha radici diverse. Prima vi sono i legami familiari, la presenza autoritaria del padre, quindi qualcosa di indefinibile: la legge, cui sembra mancare tanto il soggetto (a seguito della morte del padre?), quanto l’oggetto (il suo contenuto), da cui un senso ingigantito di oppressione. In altre parole la sacralità dell’autorità (il padre) si trasferisce nella legge, nel precetto che rimane ignoto e violato suo malgrado. Da ciò scaturisce la colpa.

Un episodio chiarificatore lo racconta Carlo Levi, anche se non vi è alcun collegamento con lo scrittore praghese:

se a tavola uno metteva una mano nel piatto, lui [il padre] arrivava con un colpetto e non diceva niente. “Perché?”… volevamo con un senso di giustizia che l’autorità ci dicesse “Tu hai messo la mano sul piatto, non si deve”. Mio padre non lo diceva…

Si tratta di un universo in cui l’autorità vale in quanto posta, il comando è valido perché è un comando, non ha rilievo alcuno che sia percepito come giusto o ingiusto. Anzi: per ovviare al giudizio è bene ignorare cosa prescriva la legge, assimilata all’insondabile volontà divina.

Una forma di sollievo o di liberazione, si dice, è data dal linguaggio, dalla scrittura, autentica ragione di vita e di sopravvivenza, qualcosa che dal potere si affranca, fronteggiandolo, e che nulla ha a che vedere con antichi atteggiamenti servili o adulatori.

Il processo di Kafka è un’ottima introduzione a quello che viene dopo: quando si parla di sistemi dittatoriali che impongono un’ortodossia all’arte in generale e allo scrivere in particolare, ponendo nel nulla l’autonomia creativa (oltre che, beninteso, la libertà di pensiero):

La rivoluzione di Ottobre… mi ha tolto la biografia, l’importanza personale (Mandelstam).

A questo punto due sono gli atteggiamenti che lo scrittore può esprimere nei confronti dell’autorità: accondiscendenza (accettazione o rassegnazione) o opposizione. Con l’accondiscendenza lo scrittore si taglia le gambe prima ancora che lo faccia qualcun altro. Con l’opposizione avviene la stessa cosa, in fondo, ma con maggior merito: Federico Garçia Lorca – ricordava Pablo Neruda – recitò un giorno a memoria i versi dei Sonetti sull’amore oscuro, i quali non fece in tempo a pubblicare in vita.

Vi sono scrittori che per patriottismo non possono che opporsi all’autorità. Così Pablo Neruda quando ricorda, con orgoglio:

Il Cile è l’unico paese che sia stato inventato da un poeta, poiché nacque da un gran poema epico, La arauncana di Don Alonso de Ercilla y Zuñiga.

Nella Germania comunista, nuovo esempio, lo scrittore si opponeva di necessità, perché il regime entrava fin dentro l’anima, soffocandola in lacci troppo stretti:

Essere scrittore significa vivere e giustificare una presenza giorno dopo giorno, senza respiro (Heinrich Bὅll).

Non vanno inoltre trascurati il potere di una dottrina, di una filosofia, del pensiero, dai quali lo scrittore ha il dovere se non la necessità di schiodarsi, perché ne va non solo della sua indipendenza, ma della libertà creatrice:

È difficile ridurre al silenzio uno scrittore, neanche una forza soprannaturale ci riuscirebbe, neppure Dio lo ridurrebbe al silenzio (François Mauriac).

Ci sono poi scrittori che scelgono il potere stesso come oggetto della loro ispirazione, e quindi lo studiano, lo analizzano: cosa succede in colui che siede sui suoi scranni, come si trasforma? Che rapporto mantiene con la realtà e con se stesso? È quanto si domanda Gabriel Garçia Marquez.

Non dissimile è la questione posta da Moravia: che rapporto ha colui che detiene il potere con la cultura? Di che cultura è? Ci si interroga così non sul potere in astratto, ma si cerca di tratteggiare il volto di colui che, di volta in volta, lo detiene:

il potere di Luigi XVI era assoluto, ma la sua cultura era la stessa di Racine (…)

Giocando un po’ col titolo, lo scrittore e chi detiene il potere possono incontrarsi a tu per tu. Un modo come un altro di considerare che anche l’imperatore, come ricorda una certa fiaba, qualche volta è nudo e la trappola l’ha tesa qualcun altro (lo scrittore tanto temuto, perseguitato ed esiliato, c’è bisogno di dirlo?)


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