Ripropongo la recensione scritta a Cannes 2013 dopo la presentazione al festival del film.
La Venere in pelliccia, regia di Roman Polanski. Sceneggiatura di Roman Polanski e David Ives, da una pièce di David Ives. Con Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric. Presentato in concorso.
Un regista e un’attrice provano a teatro La venere in pelliccia di von Scaher-Masoch. Man mano i personaggi che interpretano si impossesseranno di loro, realtà e finzione si sovrapporranno fino a confondersi. Una partita a due che diventa sfida, guerra dei sessi, gioco del dominio e della sopraffazione. Polanski si ritrova finalmente tra le mani una materia a lui congeniale, e la filma con quel senso dell’ombra e dell’ambiguità che è suo. Ottimi i due attori. E il film riesce anche a essere molto divertente. Voto 7
Francamente, dopo i suoi due deludenti L’uomo nell’ombra (tra i film più sopravvalutati degli ultimi anni) e Carnage, non mi aspettavo molto da questo film del glorioso Roman Polanski, un signore che qualche capolavoro l’ha dato al cinema. La Venere in pelliccia, ultimo film del concorso a essere proiettato, è stato invece una buona, ottima sorpresa. Un testo tratto da un lavoro teatrale che a Broadway ha fatto sfracelli, già parecchio affine e congeniale al Polanski-mondo, ma che lui ha ulteriormente riadattato a sè, alle sue ossessioni, alle sue visioni: soprattutto delle relazioni tra maschile e femminile. Kammerspiel tutto chiuso all’interno di un teatro, dialogo e duello e confronto e scontro tra un uomo e una donna, che a tratti (i meno felici) si assolutizzano, diventano l’Uomo e la Donna. Un regista (Mathieu Amalric) sta per mettere in scena la sua versione teatrale della Venere in pelliccia del barone von Sacher-Masoch, gran scandalo letterario e non solo nella Vienna del secondo Ottocento, ancora oggi abbastanza sbalorditivo per come esplora i confini dell’umano e i precipizi dell’eros. Ma non riesce a trovare l’attrice giusta. Le si presenta una ragazzotta piuttosto sul coatto, rozza, determinata, sfacciata, una ragazza venuta chissà da dove, une fille de nulle part: dice di essere un’attrice di teatro di margine, di essere lì per quella parte, è decisa ad averla, implora, blandisce, supplica, finchè il regista accetta di starla ad ascoltare mentre legge le prime pagine del copione. Oltretutto, ed è un indizio per noi spettatori, si chiama Vanda, come la protagonista del romanzo di von Sacher-Masoch. E quando comincia a leggere-recitare è come se di colpo una porta si spalancasse su un altro mondo, un’altra dimensione. La sfrontata e volgare ragazzotta si trasforma subito nell’aristocratica Vanda della finzione, e Thomas, il regista, in quella prova non programmata ma che nessuno dei due riesce più a interrompere, si cala nel ruolo del protagonista, l’uomo che va pazzo per le donne imperiose in stivali, pelliccia e con frustino, l’uomo che adora farsi maltrattare, umiliare, farsi servo della sua signora ideale. Il film è così strutturato, ha trovato i binari su cui viaggiare. L’attrice e il regista passano sempre più fluidamente, più disinvoltamente, e a un certo punto sempre meno consapevolmente, quasi automaticamente, dalla propria identità a quella dei ruoli che stanno recitando, secondo quella meccanica narrativa e di rappresentazione già molte volte vista (ma sempre efficace se ben applicata) della dialettica e sovrapposizione tra persona e personaggio, tra ciò che si è e ciò che si interpreta, tra il sè e la maschera. La ragazza venuta da chissà dove man mano si appropria non solo del testo, che mostra di conoscere e di recitare mirabilmente, ma del microcosmo a due, una sorta di gabbia, di bolla, che lì all’interno del teatro si è venuta intanto a creare. Affiorano riferimenti privati dell’una e dell’altro, ma più di lui, legato a una giovane parigina di famiglia altoborghese di nome Marie Cécile che Vanda sbeffeggia sfrontatamente. Quanto a lei: chi è il misteroso interlocutore telefonico con cui di tanto in tanto parla? Quando Thomas le chiede il nome di quell’uomo la sua risposta provocatoria è: chi l’ha detto che è un uomo? Di più non sapremo. Vediamo solo che Vanda diventa sempre più donna del mistero e la Vanda di von Sacher-Masoch, signora e padrona crudele, e che Thomas diventa sempre più il suo schiavo. Di eros non ce n’è, c’è solo il gioco del potere e della sopraffazione, c’è solo la guerra dei sessi, la partita della caccia e della preda, anche se man mano che si procede le parti si confondono, si ribaltano anche. Chi davvero sta conducendo il gioco? E siamo certi che lo schiavo è la parte passiva o è il reale padrone che si di dissimula per meglio trionfare? Vi assicuro che assistere a questo ping-pong è appassionante come mai ci si aspetterebbe, si resta avvinti e sospesi, in attesa delle mosse successive, dei prossimi rovesciamenti, attacchi, contrattacchi. Si tira in ballo a un certo punto il mito, si evocano le Baccanti al servizio di Dioniso. Vanda, ci vien fatto capire, altro non sarebbe che la forza femminile eletta a furia vendicatrice: ma verso chi? verso il maschio? Così fosse scadremmo nel femminismo spicciolo, e questa bella, intrigante storia diventerebbe solo un mesto, mediocre manifestino ideologico. Per fortuna Polanski su questo aspetto non insiste e tira via veloce. Ci sarà anche un capovolgimento per cui Thomas diventerà Vanda, mettendosi i tacchi e abiti quasi-femminili, e Vanda diventerà Thomas. Il finale sembrerebbe segnare la vittoria del maschile sul femminile, ma resta polanskianamante assai aperto e ambiguo. Così è o così i due hanno scientemente, volutamente scelto che sia? E lo sconfitto non è forse felice di esserlo e dunque il vero vincitore? Avrete già capito di come questa storia percorra sentieri sinuosi e, pur ponendo domande, non dia risposte univoche. Testo perfettamente congeniale a Polanski, che per la sua estrazione est europea ed anche mitteleuropea, e per la sua storia personale, ha sempe coltivato lo scetticismo e il distacco dalle certezze. Tutto il suo cinema è un’indagine della follia, del caos, del caso, del male anche, un’esplorazione dell’inesplorato, la discesa in un mondo di ombre dove ogni chiarezza si dissolve e rabbuia. Qui si ritrova nel suo elemento naturale, in una storia che viene dall’impero austroungarico del secondo Ottocento, da un mondo che in fondo resta quello delle sue radici culturali ed esistenziali. Messinscena perfetta, fatta di pochi elementi, povera se vogliamo, ma la macchina da presa di Polanski è affilata come un bisturi e affonda implacabile nelle carni dei due personaggi a rivelare ciò che sta celato, forse il nulla. Grandissima prova dei due attori, un Mathieu Amalric reso molto somigliante al Polanski giovane, ed Emmanuelle Seigner, che, ricordiamolo, del regista è anche la moglie. Il che fornisce un’altra possibile chiave di lettura del film.