Ho letto tutto di De Carlo. Da “Uto” a ritroso, recuperando il disperso, e da “Uto” andando avanti, sempre a rimorchio di mysister, fan della prima ora.
L’ho anche conosciuto, De Carlo, alla Feltrinelli, dove altro, per la presentazione di “Mare delle verità”, o almeno così mi pare, e gli ho spiegato in quel Momento che i suoi libri li ho scritti io (nella testa, intendo) e che dunque lui li ha copiati (non l’ho visto convintissimo, ma col tempo avrà capito).
Più precisamente ho scritto io quelli più belli, quelli perfetti, che rimangono sulle dita di una mano – “Due di due”, “Arcodamore”, “Nel momento”, “Macno” e, forse, “Di noi tre” – perché non riesce a copiarmene più da un po’.
E così, persa la speranza della perfezione, non resta che recensire il De Carlo, l’ultimo, mentre lo leggo. Non perché sia sconvolto da “Villa Metaphora” ma perché, almeno, questo è un libro diverso dagli ultimi suoi, molto diverso. Al di là della lunghissima lunghezza, c’è un’architetuttura complessa, non un “Durante” buttato là, ma un coraggioso tentativo di scrivere Il Libro della carriera. Dopo averlo visto toccare la perfezione, c’è da levarsi il cappello: il ragazzo diventato adulto avrebbe potuto permettersi di vivacchiare ancora.
Curiosi alcuni personaggi. Infantile a volte, ma vivace la trama. Confortante il solito stile di scrittura. Complesso l’incrocio dei punti di vista e dei comportamenti. Originale l’uso del dialetto tarese. Spettacolarissimo il riassunto della storia d’amore del finanziere tedesco con l’amica della figlia. Scontato, ma divertente, il politico italiano di derivazione berlusconiana.
Sono ancora a meno di metà del tomo, ma già posto “mi piace”.