Mi
piace la tua voce. E' come ascoltare gli avvisi per i naviganti. Titolo:
Noi – Us Autore:
David Nicholls Editore:
Neri Pozza Numero
di pagine:Prezzo:
€ 18,00 Sinossi:
Douglas
e Connie si conoscono alla fine degli anni Ottanta, quando il muro di
Berlino era ancora in piedi. Trent'anni e dottore in biochimica,
Douglas trascorreva allora i giorni feriali e gran parte del weekend
in laboratorio a studiare il moscerino della frutta. Connie, invece,
divideva il suo tempo con una "combriccola di artistoidi",
come li chiamavano i genitori di Douglas: aspiranti attori,
commediografi e poeti, musicisti e giovani brillanti che rincorrevano
carriere improbabili, facevano tardi la sera e si radunavano a volte
a casa di Karen, la sorella di Douglas piuttosto promiscua in fatto
di amicizie, a bere e discutere animatamente. Ed è durante una festa
nell'appartamento di Karen, che Douglas si imbatte per la prima volta
in Connie: capelli ben tagliati e lucenti, un viso stupendo, una voce
sensuale, distinta ed elegante con i suoi vestiti vintage cuciti su
misura, attillati e perfetti. Sono trascorsi più di vent'anni da
allora e Douglas e Connie sono sposati da decenni e hanno un figlio,
Albie. Douglas ha cinquantaquattro anni e la sensazione di scivolare
verso la vecchiaia come la neve che cade dal tetto. Connie è sempre
attraente e Douglas la ama cosi tanto che non sa nemmeno come
dirglielo, e dà per scontato che concluderanno le loro vite insieme.
Una sera, però, a letto, Connie proferisce le parole che Douglas non
avrebbe mai voluto sentire: "Il nostro matrimonio è arrivato al
capolinea, Douglas. Penso che ti lascerò". La recensioneQuando
penso alla mia famiglia, ci vedo tutti e quattro in macchina. In
viaggio. Un viaggio breve – parlo di andare a far visita ai miei
nonni, che vivono in un paesino a due ore di distanza, o di arrivare
a quel nuovo centro commerciale che hanno inaugurato, ma che già
sappiamo durerà poco – perché noi non siamo i tipi da vacanza
ogni mese d'agosto. Ma abbiamo viaggiato un po' e a me piace vederci
così, coi vestiti che poi sanno di automobile – non so spiegarlo,
ma ho sempre trovato che le auto, a lungo andare, lasciassero il loro
odore sui nostri cappotti -, un paio di scatoloni che tremano nel
bagagliao a ogni buca, le risate per il navigatore satellitare
farlocco che non azzecca mai una strada e tutti quegli abbassa la
radio, che non sento! pronunciati
da me e mio fratello, sui sedili posteriori, che vorremmo starcene
con i nostri mp3 quando invece papà vuole ascoltare ad alto volume i
notiziari, le telecronache o qualche successo degli anni ottanta,
mentre mamma, accanto a lui, si toglie le scarpe e si infila un paio
di pantofole, sgranchiendosi i piedi: così, dice, viaggia più
comoda. Cambiano gli sfondi, cambiano gli interni: come nei film. A
volte fuori nevica, altre volte c'è il sole. A volte saliamo sul
cucuzzolo di una montagna, altre volte è una strada tutta in
discesa. Una volta avevamo un'utilitaria più piccola e viaggiavamo
stretti come sardine, con buste e scatoloni sulle ginocchia; mia
mamma, sul tappettino, trovava sempre spazio per qualche pianta della
nonna e c'era mio padre, al suo fianco, che borbottava come una
pentola di fagioli. Tornavamo a casa con gerani dai boccioli
pesanti, che in duecento chilometri non ci avrebbero di certo tolto
l'ossigeno, o con l'odore di basilico sotto il naso: piante di
basilico con foglie grosse così, verdissime, che da noi non
prendono. Si seccano in un attimo. Ora, però, stiamo più larghi in
quell'auto che abbiamo acquistato già vecchia ma che, nei primi
tempi, ci sembrava un'astronave aliena coi sedili imbottiti e con il
cambio in finto legno che, guido io, guidi tu, alla fine si è
rovinato. Non andiamo in giro spesso e le foto delle vacanze in cui
siamo tutti insieme risalgono a una decina d'anni addietro.
Ripensandoci, c'è anche una foto fatta al ristorante, quattro anni e
mezzo fa, ai loro vent'anni di matrimonio. I vestiti leggeri, ma i
corpi più pesanti di quanto non siano adesso. Mamma, papà e mio
fratello, che in quel periodo aveva il ciuffo biondo che gli compriva
completamente gli occhi. Una roba atroce, glielo rinfaccio ancora. Io
ero dall'altra parte della macchina fotografica e scattavo: allora
non mi piacevano le foto.
Nell'immagine più recente che credo abbiamo di noi io non c'ero. E'
perciò che ci vedo in una macchina; i posti fissi come a tavola. Io
siedo sempre dietro papà e Diego dietro mamma. Mamma tirava indietro
il seggiolino, per stendersi un po' quando i chilometri erano tanti,
e io strillavo, come sparato a bruciapelo da un proiettile, che mi
schiacciava le gambe. Diè, le tue sono più corte, cavolo!
Mettiti tu qui! Anche adesso,
che le sue gambe si sono allungate a dismisura, mentre io sono
rimasto piccolo, non mi chiede di fare a cambio posto. Tutti hanno
ricordi perfetti della loro infanzia, ma io sono un pessimista per
natura e perfetta non me la ricordo. Neanche traumatica, tranquilli;
nella media. Normale; niente di che. Per sicurezza, anzi, mi piace
ricordarla più veloce, solitaria e scombussolata di quanto non sia
realmente stata, così nei momenti di nostalgia come questo, quando
mi vengono in mente all'improvviso giornate senza nuvole e scene
allegrissime, mi sorprendo nello scoprirmi più felice. La famiglia è
una cosa che devi tenerti per forza, che ti piaccia o meno. A me la
mia piace: spesso, almeno. Quasi sempre.
Comunque non completamente, perché quando capisci che è fatta di
esseri umani come te e non di divinità olimpiche, ti senti in grado
di evidenziarne i difetti, di sottolineare le cose che non vanno, di
criticare quello che non ti piace, ma così – difettosa, sbagliata
e tutto – ti senti di amarla forse di più. Nell'età in cui puoi
scegliere di tagliare i ponti con il passato, anche con il te del
passato, perdoni, chiudi un occhio e a casa ci torni. Hai visto i
difetti – non so: i cancelli che cigolano e le mamme che piangono,
il parquet da smantellare e i papà che lavorano fino a tardi, il
bagno che perde e i fratelli o le sorelle che ti rubano i jeans
dall'armadio a soqquadro – e li hai accettati lo stesso, anche se
c'era scelta, no? Quando ho iniziato Noi avevo
avuto una discussione con i miei. La chiamata era durata due minuti
ed era stata troncata bruscatamente. Si discute e poi ci si dimentica
il motivo. Benedivo, in quel giorno, quell'oretta e mezza che mi
rendeva lontano da loro. La mia piccola indipendenza la devo al
mensile che versano ai padroni di casa ogni primo del mese e sono
loro grato. Per i sacrifici che fanno per mantenermi e per la stanza,
a settecento metri dall'università, in cui decido di rimanere in
quei weekend di studio in cui, in realtà, non faccio altro che
scappare da vent'anni di solite discussioni. Io ho sempre pensato
troppo. Io mi sono sempre fatto troppi problemi. Sempre, mi sono
sentito dire tu sei il figlio, non il genitore.
Dal mio primo giorno da matricola ho imparato che l'egoismo mi
donava. Noi è il mio
quasi in “la mia famiglia mi piace quasi
sempre”, ed è anche il romanzo che più ho aspettato quest'anno.
L'ultima fatica di quel David Nicholls che, da Un giorno in
poi, se potessi lo odierei con tutto me stesso. Ma se proprio
potessi: non posso, invece. Fa ridere di gusto e ti strozza, ogni
tanto, il cuore. Diverte e commuove, come la veritiera quarta di
copertina assicura, con una storia che – sarà una frase fatta, ma
non se si parla di quest'autore – vorresti fosse interminabile e, giunti a malincuore a pagina quattrocentoventi, spereresti
continuasse e sciversi da sé. Come grazie a quella magia invisibile
che aveva permesso a Douglas, un timidissimo chimico, di averla vinta
su ex dai nomi italiani e villosi trapezisti e di conquistare, ai
margini di un tavolo che era in verità un asse da stiro, la
capricciosa e appassionata Connie. Una ragazza al di fuori dalla sua
portata che diventa una moglie al di fuori dalla sua portata, quando
gli annuncia che vuole la separazione: pensavate anche voi che la
fede nuziale fosse per sempre? Douglas, in realtà, non si era mai
cullato sugli allori. Si racconta e, adorabile illimitatamente, ma
pragmatico al limite massimo del fastidio, emoziona per il suo
sentirsi un miracolato. Come me quando faccio a gara di grazie. Vuole
ripagare Connie per il suo amore, vuole ripagare Albie per averlo
reso papà. Insicuro, troppo, ma gli si vuole bene per quello. Veniva
spontaneo fare un biglietto, prendere un treno e andargli incontro
nella sua ricerca di sé. Non è coraggioso, ma invece sbaglia. Lui è
coraggiosissimo. Quando vuole rompere un silenzio che non si può
rompere, con battute che non fanno ridere. Quando ci confessa che
vorrebbe essere un eroe. Quando ci confida una cosa brutta,
indicibile, ma di un'onestà micidiale: il desiderio di vedere suo
figlio in difficoltà, in pericolo, solo per poterlo salvare e
sentirsi dire,quella volta lì, grazie.
Dopo averci incantati e spezzati in due con la storia di Emma e Dexter, e
loro chi se li scorda più?, Nicholls torna con una prova del nove
che è anche un'agognata conferma. Non delude, con i suoi dialoghi
deliziosi alla Richard Curtis e il suo modo semplice di parlare
dell'arte e dell'arte segreta dei battiti del cuore. Mi piacerebbe vedere il
mondo con i suoi occhi, anche se a volte il brutale realismo può prendere il sopravvento e gettare cupe ombre su tutto, ma ci si accontenta di vedere stupendi scorci di
Europa mentre lui e il suo Douglas, con osservazioni ora brillanti ora
elementari, ti fanno da Cicerone. Un romanzo di formazione scritto
dal padre di un figlio confuso e ribelle. La dura consapevolezza che
quella sia sola una parentesi nella vita di un altro che fa tanto, tanto male. Noi è un po'
come un trasloco. Tutto un prendere o lasciare, un rimanere o
abbandonare. Un bellissimo pronome personale che, lungo andare, si fa
aggettivo possessivo. Noi
è tutto ciò che è nostro. La nostra vita, le nostre cose, le
nostre strane famiglie da cui poi, telefoni sbattuti in faccia e ti
odio sputati in cielo che però ci cascano in testa, alla fine
torniamo. Sarà che il Natale dà libero sfogo alle ipocrisie; sarà
che la nostra cameretta ci mancava davvero, insieme a quelle fredde attese in stazione e agli abbracci paterni che odorano di macchina. Il
mio voto: ★★★★½Il
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Da Marta Saponaro CULTURA,
DIARIO PERSONALE,
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