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Recensione-O.S. Quando penso che Beethoven è morto…, di E. E. Schmitt

Creato il 29 novembre 2011 da Patriziabi (aspassotrailibri) @openars_libri

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Recensione-O.S. Quando penso che Beethoven è morto…, di E. E. Schmitt

Giudizio 4/5

Eric-Emmanuel Schmitt

Quando penso che Beethoven è morto mentre tanti cretini ancora vivono
(allegato CD con scelta di opere di Beethoven scelte dall’autore)

Eizioni E/O, 2011, pagg. 128

ISBN 9788866320258

Trama. Un giorno, durante una mostra di maschere, Beethoven rientra nella vita di Eric-Emmanuel Schmitt. Lo scrittore ricorda che un tempo, durante l’adolescenza, ne era appassionato. Perché Beethoven si è allontanato? Perché l’uomo di oggi non prova più quelle emozioni, quel romanticismo, quelle tempeste interiori, quella gioia? Chi è scomparso, Beethoven o noi? E chi è l’assassino? Al breve saggio fa seguito un racconto, Kiki van Beethoven, la storia di una radiosa sessantenne che, grazie alla musica, riuscirà a cambiare la propria vita e quella delle sue tre amiche. Una favola sulla giovinezza perduta e sui segreti sepolti. [Dalla seconda di copertina]

Scrittore. Eric-Emmanuel Schmitt è nato a Sainte-Foy-lès-Lyon nel 1960. Ha studiato musica al conservatorio di Lione e successivamente si è laureato all’École Normale Supérieure di rue d’Ulm a Parigi. Ha insegnato filosofia all’università di Chambéry. Come autore teatrale ha scritto diverse opere che sono state rappresentate in tutto il mondo. I suoi romanzi sono tradotti in molte lingue. [Dalla terza di copertina]

Recensione-O.S. Quando penso che Beethoven è morto…, di E. E. SchmittOsservazioni speciali di Patrizia.
Un saggio ed un racconto, quest’ultimo specchio del primo, compongono un libro ispirato ed incentrato sulla figura carismatica ed imponente del genio della musica classica, Ludwig Van Beethoven.
Il saggio breve, lineare nel lessico, è un condensato di poesia e di musica: le parole a tratti compongono melodie e la musica cerca di evadere dalle maglie ben tessute della scrittura e di affermare se stessa.
Le riflessioni dello scrittore, la cui impronta filosofica segna in modo indelebile il saggio, sono riflessioni in prima persona, autobiografiche, che raccontano come “Fra me e Beethoven è stata una storia breve ma intensa. Comparve nella mia vita quando avevo quindici anni e la lasciò che ne avevo venti.” (p. 13)
Un rapporto di scoperta, ascolto, amore, intimità, che declinano in abitudine, abbandono per diventare resurrezione: un rapporto tormentato, di cui l’autore riferisce “Non riuscivo più a provare l’esaltazione di una volta. Neanche sul decollo di un crescendo il mio cuore accelerava più. E i miei occhi rimanevano asciutti. L’abitudine a Beethoven, i miei successivi ascolti, la familiarità che si era instaurata fra noi aveva ucciso in me la ricettività e causato la morte per overdose della mia emozione pubere.” (p. 14)
Se il distacco arriva quando Schmitt aveva venti anni, la resurrezione di quel rapporto apparentemente logorato avviene superata la soglia dei quarant’anni, a Copenaghen, in visita alla mostra Le maschere dall’antichità greca a Picasso, allestita al museo Ny Carlsberg Glyptoteket: nella sala dedicata a Beethoven, davanti alle sue effigi lo scrittore ammette di essere “percorso da brividi, incapace di muovere un passo”. (p. 15)
La storia della riscoperta artistica e personale di Beethoven da parte di Schmitt è anche la storia della nascita del racconto lungo pubblicato di seguito al saggio, che prende vita in quella sala del museo, nella mente dello scrittore, prende corpo sul volo aereo di ritorno, sulla carta del suo taccuino di viaggio, e diventa realtà a teatro, sui palcoscenici ove viene rappresentata.
Questo testo pone la domanda che più pervade l’animo di Schmitt “Chi è l’assassino di Beethoven?” e racchiude anche alcune risposte, tra cui quella sentenziata, senza via di fuga, dalla cantante lirica Vo Than Loc “Quando penso che Beethoven è morto mentre tanti cretini ancora vivono…”.
Questo libro è un inno a Beethoven, alla sua arte, al suo essere eroe, invincibile, virtuoso, perennemente controcorrente.
Le riflessioni sull’essere e sulla vita del musicista si alternano con somma maestria, attraverso un’invisibile linea di confine, alle riflessioni sulla sua musica. La lettura è come se fosse quella di un pentagramma, interpretato attraverso gli insegnamenti del genio musicista e del sapiente scrittore che ne tesse le lodi, e dalle armonizzazioni suggestive dell’orchestra.
A queste meditazioni Schmitt affianca considerazioni sull’umanità e sulla propria ed altrui condizione di uomo, di filosofo e, per un periodo della sua vita, di ‘intellettuale puro’ e come tale freddo e sterile.
In età matura, riscoprire Beethoven, la sua morale fatta di “umanismo, coraggio, culto dell’altezza, scelta della gioia” (p. 49), significa per l’autore riscoprire il proprio io, il proprio essere “altro”, rieducarsi alla buona ingenuità, come egli stesso ammette: “altro” è anche l’universo rispetto alla comune concezione.
Ho adorato di questo saggio l’antagonismo, nel Concerto n. 4, del pianoforte e degli archi, intervallati dal silenzio che diventa quasi un direttore d’orchestra.
Sono stata rapita dalla lettura della musica che Schmitt mette nero su bianco, l’interpretazione di una battaglia, in cui “sebbene gli archi cerchino di intimidirlo, il pianoforte non aumenta di tono, persiste, rimane di una serenità sconcertante. […] Visto che ha campo libero, si permette di mostrarsi più vibrante e più sonoro per il tempo di un lungo trillo. Tornano gli archi, ma domati, ridotti a tappetino.” (p. 54-55)
Una descrizione sublime per chi come me cerca la passione nelle parole ed in questo libro la passione si manifesta senza remore.
Ho amato il racconto pieno di poesia e di delicatezza dell’albero musicista, il tiglio, che dischiude lo sguardo del lettore su un linguaggio bucolico, conturbante e musicale al tempo stesso, che ”non stormisce nell’aria, non entra nelle orecchie, va dritto alla mente.” [p. 60] Difficile non rimanere estasiati dall’ascolto, simultaneo alla lettura, del Quartetto per archi n. 15 di Beethoven, che “gratta come una corteccia e le cui voci si aggirano come rami.” (p. 60)

Recensione-O.S. Quando penso che Beethoven è morto…, di E. E. Schmitt

Museo Ny Carlsberg Glyptoteket di Copenaghen

A seguire discreto questo saggio, tendendogli le braccia per avvolgerlo in un disincantato e corrisposto abbraccio, è il racconto lungo Kiki Van Beethoven, in cui la storia della protagonista Christine e dell’umanizzato Ralf, delle sue amiche della casa di anziani, Zoe, Candie e Rachel, si fonde con la superficialità, il sarcasmo improprio e la stupidità del fratello Albert (“Eh sì, io sono così, ho bisogno di punti di riferimento stabili: il nord, il sud, le fragole a primavera, le mele in autunno… e la stupidità di mio fratello.” p. 91). La sua esistenza si incrocia inoltre con la disponibilità ed il senso dell’amicizia del giovane rapper Bubacar, che scopre in compagnia di Kiki-Christine, attento e stupito, la musica di Beethoven.
In queste pagine Christine racconta in prima persona, alter ego dello scrittore, il suo rapporto con il musicista e compositore tedesco e ad accompagnarla in questa narrazione è la maschera del volto di Beethoven, dotata di un “potere” misterioso, trovata e comprata per due soldi in una bottega di anticaglie. “[…] la maschera, la sua immensa fronte torturata dalla idee, che ribollivano al disotto, i capelli ispidi, e poderosi, che erompevano come suoni, le palpebre chiuse sulle violenze interiori, la bocca pronta a parlare.” (p. 107)
Con la maschera si confronteranno le amiche di Christine e soprattutto lei, che ritornerà a sentire “tutte le meraviglie che non sapeva più sentire.” (p. 107) e sarà costretta a fare i conti con ciò che aveva esiliato con durezza dal cuore.
Un libro intenso e poderoso, che parla al lettore con il inguaggio delle parole, della musica e delle metafore, con semplicità, limpidezza e trasparenza, privo dell’inconsistenza tipica degli ‘intellettuali puri’ (contrastati da Schmitt), pervaso di umanità e di individualità.

Dal libro…

“Beethoven sostenne il mio sguardo senza battere ciglio, con i lineamnete duri e chiusi, come se quel viso che non sentiva più i suoni dall’esterno li sentisse meglio dentro di sé. Niente lo deconcentrava. Tutto ne stava a indicare la forza: la faccia muscolosa, il collo robusto e vigoroso, la mascella leonina, la criniera folta, selvaggia, irta intorno alla fronte immensa costellata di bozzi a forza di pensare alle vie d’uscita, gli occhi parallizzati, cupi, infossati, collocati tanto nel cranio quanto alla sua superficie, espressione del mondo interiore più che osservatori di un mondo esterno. E ad addolcire quei tratti aggressivi, una fossetta infantile e un delicato contorno della bocca”. [p. 43]
“Il senso della musica non è avere un senso preciso, ma essere la metafora di numerosi sensi. Altrimenti tanto vale utilizzare le parole.” [p. 58]
“Sì, sono ottimista, perchè è una scommessa che mi conviene: se il destino mi dimostra che ho fatto bene ad avere fiducia vinco, mentre se il destino mi rivela che ho sbagliato, non avrò perduto niente, avrò anzi avuto una vita migliore, più utile, più generosa.” [p. 65]
“Ascoltare Beethoven vuol dire mettersi le scarpe di un genio e rendersi conto di non portare lo stesso numero.” [p. 80]
“Kiki, dici che il tuo Beethoven amava l’umanità… Però l’altro giorno mi hai raccontato che litigava con tutti.
E’ vero, aveva un carattere pestifero, ringhiava e urlava. E giustamente, perchè quando credi nell’umanità non ami l’uomo per quello che è, ma per quello che dovrebbe essere. La misantropia è il segno distintivo dei più grandi umanisti. Bisogna avere il senso dell’ideale per arrabbiarsi.” [p. 108]


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