Titolo: Oschi Loschi. Racconti solidi come castelli di carte
Autori: AA. VV.
Curatore: Flavio Ignelzi
Genere: narrativa, racconti
Editore: Never Mind – Media & Press
Pagine: 180
Anno di pubblicazione: 2011
ISBN: 9788890614200
Prezzo di copertina: €10,00
Formato: brossura
Valutazione:
Grazie all’autore per aver inviato il libro in formato eBook.
RIASSUNTO - “Oschi Loschi. Racconti solidi come castelli di carte” raccoglie venti racconti della terra osca, officina narrante a cielo aperto, testimone accondiscendente di storie irrequiete, mosaico incandescente di personaggi. Un castello di carte in bilico sul vissuto, ogni carta un racconto, ogni racconto contraddistinto da un seme delle carte napoletane: l’ebbro destino e le sue ombre inquiete (le coppe), colpi al cuore per placare la sete di vendetta (le spade), valori che non si custodiscono in cassaforte (i denari) e castighi divini per chi non se li cerca (i bastoni). Venti autori sanniti che raccontano, con stili diversi e traiettorie inusuali, passioni e incubi, incontri e scontri, viaggi e ritorni. Un’antologia ironica, dolorosa, poetica, terrorizzante, commovente che oltrepassa i meri confini territoriali per combattere con armi affilate nell’arena scalpitante della narrativa italiana contemporanea.
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RECENSIONE
di AlessandraV82
Ebbene sì, lo ammetto: attraverso la lettura di questa antologia mi sono resa conto che forse anch’io faccio parte di quella schiera di lettori “perbenisti”, così assurdamente abituati fin da piccoli alle storie a lieto fine, nelle quali il cattivo viene sempre sconfitto e il bene trionfa sempre su tutto; così abituati alle copertine patinate che ti accecano sugli scaffali delle librerie.
Oschi Loschi? Nulla di tutto ciò. Oschi Loschi è un modo di essere, uno stile di vita. È qualcosa di nuovo. Qualcosa che si impara man mano che leggi, scuotendo a volte la testa con la voglia di lanciare il libro nella differenziata. Ma è un percorso da compiere, un percorso obbligato. Che comunque vada ti cambierà. C’è un’iniziale e comprensibile sensazione di smarrimento; bisogna imparare a conoscerli, gli Oschi Loschi e non è certo così scontata, come conoscenza. È come entrare in uno di quei bar fumosi dai quali vorresti subito uscire, girando i tacchi e dirigendoti a grandi falcate verso la porta con i maniglioni antipanico e con la scritta “EXIT”; ma alla fine nel fumo riesci a scorgere una luce, un volto “amico”, e a poco a poco prendi confidenza con l’ambiente e inizia a piacerti. La “nebbia” si dirada e inizi a vederci chiaro (anche se la sensazione di “losco” non ti abbandona mai). La sensazione è quella di non avere via di scampo.
Appena inizi a leggere ti rendi conto di esserci dentro fino al collo, sei “ostaggio” degli Oschi Loschi. A ogni racconto è legata una colonna sonora, e questa trovata è senz’altro piacevole perché permette di arricchire il percorso di lettura, unendo parole e musica, due elementi che si completano a vicenda. Ma c’è chi probabilmente preferisce leggere in assoluto silenzio, è questione di gusti. Tanto per cominciare è necessario capire bene cosa significa Oschi Loschi: “Osco” è colui che appartiene a una popolazione sannitica pre-romana, ovvero un popolo stanziatosi nell’area dell’Irpinia e del Sannio, che quindi comprende principalmente le province di Benevento, Avellino e Salerno. “Losco”, invece, perché frequentano zone e persone fuori dai soliti schemi. Quindi si tratta di una letteratura di stampo surrealista, e lo si percepisce subito. Moltissimi racconti, infatti, sono inquietanti, pieni di “ombre”. Il concept “racconti solidi come castelli di carte” è certamente indicativo: alcuni racconti vacillano. Ma questo risultato è voluto, cercato, perché come affermato dal curatore Ignelzi la funzione è quella di «cogliere il lato gioviale dello scrivere e dello stare insieme».
Ho trovato estremamente originale l’idea di organizzare i racconti in quattro sezioni, ciascuna delle quali è rappresentata da un seme delle carte napoletane: le spade, i denari, le coppe, i bastoni. Non è semplice recensire una raccolta di racconti, in quanto alcuni scrittori sono già “esperti” e competenti (si tratta di chi utilizza la scrittura come lavoro: ad esempio tra gli scrittori ci sono alcuni giornalisti) mentre altri sono alle prime armi (e si sente). Difatti, alcuni racconti risultano essere senza carattere, acerbi, scialbi, noiosi, senza né capo né coda.
I primi quattro fanno parte del seme delle coppe «ricolme di nettare e portatrici di euforia». Questa euforia è però momentanea, passeggera. Il personaggio di Dionisio (Dio per gli amici) che nella baldoria dell’ultimo dell’anno si ritrova bloccato nell’ascensore. Oppure Filippo, che, ubriaco dall’alcool e dai passi di tango argentino, investe un tizio e se la dà a gambe. Vengono quindi ripresi anche temi attuali (fatti di cronaca nera che sentiamo tutti i giorni in tv) che vengono rielaborati (a volte sapientemente e altre volte frettolosamente) dagli Oschi.
Proseguendo si arriva ai racconti delle spade, «colpi al cuore per placare la sete di vendetta», e anche qui i racconti si fanno macabri. Il lettore arriva a chiedersi: “ma è possibile che questi racconti debbano finire tutti male?”
Si giunge in un attimo ai racconti di denari, «valori che non si custodiscono in cassaforte», che è probabilmente la sezione che ho maggiormente apprezzato. Per esempio, il racconto “Quello che rimase del cielo” di Umberto Di Lorenzo è la storia commovente di un padre che si ritrova a dover crescere da solo la figlia. Sua moglie è in fin di vita all’ospedale e lui cerca di cucinare decentemente per sua figlia e di trovare le forze per rispondere alle sue mille domande. Tra la difficoltà di spiegare alla piccola Laura il coma della madre e la difficoltà di un padre che a poco a poco realizza di dover sostituire anche la figura materna. È un racconto toccante, ben scritto. Sembrerà banale, ma i “denari” di cui si parla sono l’amore, la salute, uno scorcio di cielo. Riusciamo ad apprezzarli nel nostro quotidiano?
Tuttavia è necessario chiarire che ogni racconto è un mondo a sé e ha una lunghezza variabile. Alcuni racconti sono prolissi, anche fin troppo, mentre altri sono decisamente troppo brevi, poco articolati. Racconti di una paginetta e mezza, nei quali spesso la storia risulta poco chiara e chi legge non ha il tempo di farsi un idea del personaggio perché quest’ultimo “nasce” e “muore” praticamente subito. Sembrano quelle storie nelle quali il lettore deve costruirsi il finale, che di per sé è un ottimo esercizio di immaginazione, ma diciamo che la maggior parte delle volte il lettore preferisce essere accompagnato verso un finale (positivo o negativo che sia)… un finale, però, ci deve pur essere! A mio parere è consigliabile avere meno storie ma più dettagliate, più ricche, per poter riuscire a entrare nel vivo del racconto. Alcune storie le ho trovate davvero troppo corte, “liquidate” in poche righe. Sono racconti che rimangono così, sospesi a un filo, senza una conclusione. Diciamo che un lettore pigro (categoria nella quale quasi certamente rientro anch’io) vorrebbe anche sentirsi dire le cose fino in fondo, altrimenti il rischio è quello di rimanere a bocca asciutta. A volte si fa fatica a seguire il filo logico del racconto (sempre se ce n’è uno. E se non c’è, è un fatto voluto?), e spesso dialoghi e pensieri si mescolano l’uno nell’altro.
E infine si arriva ai racconti di bastoni, «castighi divini per chi non se li cerca». Anche qui vengono ripresi luoghi cari ai nostri amici Oschi: una carrellata di paesi campani sconosciuti ai più, ma certamente ricchi di “storie”. Paesi come Ariano Irpino, Mercato San Severino, Fisciano.
I personaggi sono per la maggior parte persone comuni, che tutti noi possiamo incontrare nella vita quotidiana (un’addetta all’ufficio postale, un padre, ecc.) ma dipinti come personaggi “insoliti”, mai banali.
I temi sono per lo più scorci di vita quotidiana, contrapposti però a racconti surreali. I più ricorrenti sono la contrapposizione tra la vita e la morte, l’amore e l’odio, e ancora l’alcool o la disoccupazione. Le ambientazioni sono varie: si passa dalla stazione, all’ascensore, dalla cava di estrazione al bar di paese.
Questa antologia è rivolta sicuramente a un pubblico adulto e consapevole. Ho trovato infatti alcuni racconti non molto “educativi” (come la bimba che nel racconto “Greta strizza gli occhi”, infilza la madre con le puntine) e a tratti tragicomici (come quando la bimba cerca di uccidere la madre con una collanina di perle delle Winx). La grinta di alcuni personaggi è positiva, sana, ma troppo spesso si cade nella violenza gratuita, che rende tutto “troppo crudo”: troppi schizzi di cervello per i miei gusti. Ma sicuramente splendido il modo di rivolgersi al lettore:
È naturale trovare ridicolo uno strano racconto come questo con tutti i suoi irrealistici preamboli […] Dico a te, che forse pensavi a qualcosa di più creativo, di più interessante trovandoti a leggerlo senza dare un minimo credito a quello che scrivo […] Ci vuole troppa fatica a volte a rimanere nel giusto ascolto senza quella certa aria beffarda, no?
Ci sono sicuramente dei punti “oscuri” in questa antologia. Per non parlare della punteggiatura, per la quale vale il concetto del fai da te, ovvero “quando mi va la metto e quando non mi va, si fa senza”. Ad esempio nel racconto “Due bottoni” di Daniele Viola, non ci sono virgolette per i dialoghi. È tutto un susseguirsi di frasi brevi, a “scatti”, nelle quali è difficile cogliere il senso, il messaggio che lo scrittore vuole inviarci. È da questo che il lettore capisce che in alcuni casi, si è di fronte ad esercizi di scrittura creativa di giovani autori.
È invece lodevole il tentativo di richiamare in alcuni racconti degli eventi realmente accaduti, come ad esempio quello tragico del terremoto in Irpinia. Fatti relativamente lontani che hanno sconvolto e cambiato lo scenario di questi luoghi. Come è altrettanto positivo il tentativo di raccontare il disagio giovanile di tutti i ragazzi, in particolare quelli del sud.
Ho trovato in questi racconti moltissime espressioni dialettali, e quindi la voglia di una riscoperta della semplicità, delle tradizioni, delle origini. Linguaggi che stanno andando via via perdendosi con il passare degli anni, e che invece vanno tutelati e tramandati, perché rappresentano la nostra storia, il nostro passato, la nostra identità nazionale.
Mi è piaciuta l’idea di scavare nelle origini di un luogo, ricco di storie, di credenza popolari e superstizioni. Ho apprezzato le immagini di vita semplice fatte di bollette, mutuo, minestre di scarole e fagioli.
Non ho gradito invece il linguaggio spinto, irruento e diciamo così “colorito” di alcuni racconti. Leggere continuamente di culi, cosce, amplessi e orgasmi, per quanto siano cose sane e naturali, non è un granché, ma questo è un parere assolutamente personale (credo si possano raccontare le stesse cose con parole diverse). Ma questo è un elemento che contraddistingue questi racconti: niente filtri e niente censure. Credo che lo scopo di questi toni sia quello di ricompensare con stranezze ed eccessi quello che di insoddisfacente e triste c’è nella vita. Infondo «vivere è un’imprudenza continuata», come scrive Luigi Furno nel suo racconto.
L’elemento dominante è quindi la pluralità di stili. Ho trovato alcune differenze anche tra scrittori (oschi) e scrittrici (osche). Le scrittrici sono più portate ad arricchire i racconti con dettagli (come ad esempio il racconto di Federica D’Avanzo, molto dettagliato). Vi è sicuramente un’attenzione al particolare, che rende più interessante e scorrevole la lettura.
Ho trovato altrettanto originale la biografia degli scrittori infondo al libro: ciascuno di loro è raccontato come un personaggio, una vera e propria sagoma. Si passa dal ragazzo semplice da “pane e mozzarella” a chi si lava le ascelle con il Negroni. Tutti giovani, oschi e alquanto loschi!
La maggior parte dei racconti sono “noir”, un po’ inquietanti, ma vale la pena leggerli, se non altro per farsi un idea di qualcosa di “diverso”, fuori dall’ordinario, fuori dai soliti canoni commerciali. Infatti non è detto che dalla lettura di questi racconti non salti fuori comunque qualcosa di buono, qualche spunto di riflessione sulla vita e la morte. Forse ogni tanto è giusto che qualcuno “ci sbatta in faccia la realtà” (anche se sottoforma di racconti surreali) perché a furia di leggere “storielle perbeniste” finiremo, a mio avviso, per avere un cervello rattrappito e “ovattato” da storie che hanno sempre e comunque un lieto fine. Qualche percorso alternativo a volte è utile a tutti.
In definitiva, i racconti di Oschi Loschi sono da leggere, perché tutti hanno qualcosa da dire. Ma attenzione: leggeteli solo se siete disposti a lasciarvi conquistare da questa tipologia di letteratura che io considero “no frills”, quindi senza troppi fronzoli. In conclusione possiamo dire che questi Oschi Loschi abbiano in mano il settebello e se lo stiano giocando per chiudere la mano con una bella primiera. Non ci resta che aspettare altri racconti per “contare i punti” e vedere chi vincerà.
In sintesi…
Suddivisione dei racconti in base ai
semi delle carte napoletane…
… anche se per alcuni si fa fatica a
capire la motivazione del
collocamento in quella sezione.
Consigli musicali all’inizio di
ciascuna sezione.
scorrevoli (in questo caso conviene
alzare il volume della musica!)
Utilizzo di espressioni dialettali.
Espressioni troppo “crude”, quasi
volgari.
Pluralità di stili, racconti “no frills”. Punteggiatura a volte inesistente.
Tentativo di richiamare fatti
realmente accaduti.
Alcuni racconti sono “acerbi”,
senza struttura.
* * *
Una frase significativa…
- Papà le femmine possono fare gli inventori?-
- Gli inventori?- e già so che sta per dirmi una cosa che poi ci rimango male per quanto è bella.
-Sì da grande voglio fare l’inventore e inventare una sveglia così forte da svegliare la mamma-
Guardo mia figlia e mi viene da piangere, ma non posso, non davanti a lei e non così all’improvviso. Mi sembrerebbe poi troppo difficile spiegarle il perché. Esco sul terrazzo con la scusa di accendermi una sigaretta. Mia figlia mi raggiunge e mi da la mano. È intelligente, come mia moglie, ma non riesco a nasconderle nulla. Restiamo io e lei a piangere insieme, al tramonto. […] Sul terrazzo dell’unica casa con la saracinesca del garage completamente chiusa, un papà e la sua bimba persi e immobili, con gli occhi rivolti in su a guardare ciò che rimane del cielo.(dal racconto “Quello che rimase del cielo” di Umberto Di Lorenzo)