Pan, viaggio sull’isola che non c’è, un film di Joe Wright. Con Levi Miller, Hugh Jackman, Rooney Mara, Garrett Hedlund, Amanda Seyfried.
Folle, folle idea quella di inventarsi il prequel di Peter Pan. Con un Pan piccolo orfano rapito dagli sgherri del pirata Barbanera e poi impegnato a cercare la mamma che lo abbandonò in fasce. Dell’originale di John Barrie non c’è quasi niente, molto invece dei supereroismi e del fantasy degli attuali campioni d’incasso. E però al box office americano Pan è stato il disastro dell’anno. Film mattocco, di eccentricità british, scombinato, con però una meravigliosa Rooney Mara, e due scene assolutamente cultistiche. Voto 5 e mezzo
Chissà perché Joe Wright ha deciso, dopo l’ottimamente riuscito e molto inventivo Anna Karenina, di buttarsi in un’impresa pazza e senza gran costrutto come questo Pan. Che si configura addirittura come il prequel mai scritto da John Barrie del suo Peter Pan, e però snaturando parecchio il character originale trasformandolo in un abbastanza odioso piccolo super-eroe (per quanto a lungo riluttante) al fine di allinearlo alle mode contemporanee da blockbuster, e inventandosi una storia in cui si mescolano tronconi di letteratura per l’infanzia ma anche moltissimo dell’attuale cinefantasy, anche il più greve. Un pastiche in cui si mescolano elementi disparatissimi e citazioni e che finisce con l’essere un pasticcio e basta. Abbastanza indigesto, anche se il box office del primo weekend di programmazione in Italia l’ha premiato con un milione di euro, che è grasso che cola per un film che sul mercato angloamericano è stato il flop dell’anno, una vera catastrofe per i suoi produttori. Ma qui da noi il pubblico è sempre ben disposto verso prodotti cinematografici che si autoproclamano per l’infanzia, lieto di portarci il sabato e la domenica i pupi che così almeno per un paio d’ore non rompono le scatole (e però magari le rompone ai poveri altri spettatori senza infanti, ma questo è un altro discorso), e non va mica tanto per il sottile nella scelta. Il guaio è che non si capisce cosa sia mai questo Pan, che parte come un Dickens aggiornato, quindi recupera un qualche vago elemento del Peter Pan di Barrie per poi trasmutarsi in un adventure alla Indiana Jones e più in là in un fantastico con un che di supernatural. Tutto però molto, molto dark. Alla fin fine, un classico racconto di formazione, mostrandoci come il piccolo Pan attraverso la ricerca della madre che l’ha abbandonato arrivi ad accettare la propria identità di predestinato salvatore (del regno delle fate di mamma) e di essere un umano volante. Una bildung che disegna un itinerario, un movimento di crescita e maturazione che è l’esatto opposto del Peter Pan immobile di John Barie, inchiodato alla sua impossibilità o non volontà di crescere. E già questo. Si parte con Pan abbandonato davanti a un orfanotrofio dove crescerà tra angherie simil-dickensiane, con la differenza che non siamo nella Londra ottocentesca e neanche in quella primo Novecento di Barrie, ma in quella assai più tarda della Seconda Guerra Mondiale bombardata dalla Luftwaffe. Il piccolo Pan finisce, come molti altri compagni orfani, rapito da un vascello volante di pirati contro cui si scatenano invano gli Spitfire britannici, e che lo porta là a Neverland, nell’isola che non c’è dove si soffre sotto il tallone di ferro del tremendo pirata Barbanera (un mefistofelico Hugh Jackman). Dove piccini rapiti ovunque e ridotti in schiavitù son costretti a scavare la roccia in cerca di una pietra magica in grado di fermare il tempo e garantire al dittatore l’eterna giovinezza. Con la miglior scena di un film peraltro discutibile, quella con i piccoli schiavi che salutano il capo-ditattore cantando Smells like teen spirit dei Nirvana, che quasi non ci si crede (ma è tutto il soundtrack firmato da John Powell a essere notevole). Seguono altre avventure nell’altra metà dell’isola, quella che Barbanera vorebbe soggiogare e sfruttare e che è ancora nelle mani delle fate. E qui, incongruamente, comincia la parte simil-Indiana Jones, con un giovane Hook (lo interpreta Garrett Hedlund, magnifico anche per animalesca sexytudine, un attore che il cinema si ostina a sottoutilizzare) in azione con tanto di cappellaccio tra jungle e pericoli di ogni genere, e la scoperta di una corte selvaggia con la scena più folle di tutto il film insieme a quella degli schiavetti cantanti i Nirvana. Scena in cui i nostri son prigionieri della regina Rooney Mara e dei suoi, danzanti come nei film sugli indigeni e cannibali dei film anni Trenta e Quaranta, lei con un costumino multicolor e un copricapo tra Missoni e Paul Smith però in acido, di assoluto culto camp. Ci si diverte per un po’, poi purtroppo si torna alla noiosissima ricerca di Pan della mamma che lo abbandonò in fasce (per il suo bene, scopriremo poi). Il guaio non sono solo il lambiccatismo plot o la lontananza dal personaggio originario, ma un 3D incerto e mal realizzato, scenografie orrende che vorrebbero essere (forse) steampunk e son solo povere. Per non parlare del vascello volante, che truccherie così goffe e elementari non le si vedeva dagli anni Cinquanta, con l’aggravante che non c’è nemmeno quell’incanto naïf. Il film è bizzaro, di un’eccentricità madness molto british, e questo sarebbe potuto essere la sua forza, peccato che tanta follia non diventi mai fantasmagoria, visione su altri mondi, un’altra percezione. Per fortuna c’è Rooney Mara, con quel viso e gli occhi cerbiatteschi, la sola che possa dirsi erede di Audrey Hepburn, e che come regina cattiva e poi buona è la sola meraviglia capace di consolarci in questo film. Che però non darei definitivamente per spacciato. Le due scene di cui sopra potrebbero nel giro di qualche anno farne un culto.
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Recensione: PAN, viaggio nell’isola che non c’è. Che pastiche! (ma con due scene cult)
Creato il 16 novembre 2015 da LuigilocatelliI suoi ultimi articoli
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