In “PARIS KEBAB” (di M. Trucco, Safarà Editore, 2012) non esistono buoni e cattivi. La netta linea di distinzione che separa la morale buona da quella cattiva, in questo romanzo italiano dal forte sapore noir è assente.
Dal Marocco, passando per l’Algeria, dove i militanti islamici combattono il loro personale jihad contro il corrotto governo algerino, il protagonista del romanzo, un giovane sbandato e già piegato dalla vita, viene inviato, su pressione dell’imam algerino che lo ha allevato, in missione a Parigi per partecipare all’organizzazione di attacchi terroristici sul suolo francese.
Parigi, la grande metropoli che da decenni accoglie nel suo ventre centinaia di migliaia di immigrati maghrebini (e segnatamente dall’Algeria), diventa per Jacques, questo il nome assunto in Francia dal protagonista, un’ incubatrice di sogni ed incubi destinata a travolgerlo completamente.
La vicenda, che prefigura attacchi bomba mai avvenuti nella capitale francese, è ambientata prima dello scoppio delle periferie parigine del novembre 2005, dove gli immigrati di origine maghrebina misero a ferro e fuoco la banlieu per diversi giorni. Un episodio espressione di una malaise tutta interna al sistema di integrazione francese, che in quell’occasione rivelò all’Europa e al mondo tutto il suo fallimento.
In PARIS KEBAB l’aspetto sociale dell’immigrazione è superficialmente toccato: Jacques non cerca mai di integrarsi con il popolo parigino, e quei pochi contatti che intrattiene, li stringe con immigrati come lui: un algerino con sogni di gloria, forse l’unico “buono” della storia, e una giovane ebrea israeliana con un segreto inconfessabile, come quello di Jacques.
Raccontato in prima persona per tramite di Jacques nella prima parte, il romanzo si amplia e diventa corale nella seconda parte, con uno shift forse non sempre propriamente riuscito (diverse volte ho faticato a capire in quale punto della storia fossi), nel momento di svolta della vicenda, che vede coinvolto direttamente Jacques e tutta la sua inumanità ed ignoranza. Ma anche qui, non esistono buoni: l’ispettore Lecompte che dirige le indagini e che impersona la Legge, è un uomo abbrutito e appesantito dalle sue vicende private, e che trova sfogo solo nel lavoro e nel dirigere in modo autoritativo sottoposti e familiari.
Alla fine perdono tutti, perdiamo tutti, in un vortice di detriti, membra e miserie umane.
PARIS KEBAB è un esperimento narrativo riuscito: la scrittura è solida, fluida e accattivante. Le ultime 30 pagine sono scivolate via in mezzo pomeriggio. Le immagini evocate sono vivide e reali, al punto che sembra quasi di riuscire a sentire gli odori di plastico, ammoniaca e carne bruciata che infestano l’aria molle parigina di cui sono impregnate le pagine del romanzo.
L’autore non ammicca mai al lettore né si compiace mai di sé, ma pecca di qualche ingenuità ortografica, come anche l’editing, a volte un po’ disattento.
Nel complesso è un libro che si fa leggere, senza pretendere di essere un’indagine sociologica del fenomeno del terrorismo di matrice islamica.