Pasolini, un film di Abel Ferrara. Con Willem Dafoe, Maria de Medeiros, Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio, Adriana Asti, Giada Colagrande, Francesco Siciliano, Valerio Mastandrea.
L’ultimo giorno di Pasolini, da un’intervista a una radio francese fino alla spiaggia di Ostia. Ferrara non si limita alla ricostruzione cronachistica, ma inserisce (e mette in scena) brani di Petrolio, il romanzo che Pasolini stava scrivendo, e del film sul re magio Epifanio che voleva realizzare con Eduardo. Ne esce un Pasolini sciamano, profeta (“siamo tutti in pericolo”) della propria fine e di quella del mondo tutto. Operazione interessante. Solo che Ferrara mantiene per tutto il film un tono freddo, distante. Stranamente prudente. Questo film non è né Ferrara né Pasolini. Ma se ne parlerà e straparlerà. Magnifiche tutte le parti della Roma notturna, pessime quelle domestiche e gli inserti con Davoli e Scamarcio. Voto 6 meno
Uscendo dalla proiezione veneziana ho sentito davanti a me una ragazza sentenziare: questo film non piacerà ai puristi di Pasolini. Però non è tanto piaciuto nemmeno a me, che purista di Pasolini non sono, anzi purista mai, convinto come sono che ogni libertà e libera interpretazione e reinterpretazione e revisione sia possibile e lecita anche sulle più consolidate e monumentalizzate figure e narrative (dipende poi da cosa ne vien fuori). Figuriamoci, di cosa mai ci si dovrebbe scandalizzare qui? Di un Willem Dafoe fisicamente somigliantissimo ma abissalmente distante, nella sua coolness mewyorkese, nella sua naturale estraneità da ogni rovello e passione del personaggio che gli tocca interpretare? Del fatto che il suo Pasolini parli in inglese anche con mamma, cugino e cugina e il primo ristoratore romano che incontra? Che fa un certo effetto vedere Mastandrea (nel ruolo di Nico Naldini) e Adriana Asti (la madre Susanna) interloquire oxfordianamente – insomma, ecco – con Pierpaolo. Peraltro chiamato alla friulana Pierut. Tant’è che escono cose tipo How are you, Pierut? No che non ci si scandalizza, semplicemente si prende atto e si nota che qualche volta si sfiora il grottesco involontario, tutto qui. Che poi chissà perché quando Pasolini è con Pino Pelosi al ristorante, con lui e con il cuoco parla in italiano (e Dafoe non è doppiato). No, non è mica questa babele di suoni a darci fastidio, che anzi qua e là ci comunica una vertigine e una specie di straniamento tardobrechtiano. Che poi tutta questa babele la si perde nella versione doppiata adesso nei cinema, con Fabrizio Gifuni che dà voce a Dafoe, ed è un peccato, perché quelle incongruenze davano al film un passaporto per il paradiso dei cult movies. A non funzionare davvero in Pasolini è l’inerzia, la mancanza di vitalità, la glacialità dell’intero film, che mai palpita davvero, che appare a tratti come un’operazione distanziata e distanziante rispetto al personaggio e a tutta la materia narrata, come un lezione condotta stancamente davanti a una platea di allibiti studenti del tutto ignari di Pasolini in una qualche remota universià dell’Ontario o del Minnesota (e Dafoe, nella sua fissità, nella sua deambulazione straniata, da sonnambulo, mi ha ricordato incredibilmente il Rod Steiger-Papa Giovanni, anzi ‘mediatore’ della storia di Papa Giovanni, nel remoto E venne un uomo di Ermanno Olmi). Pasolini chi? La sceneggiatura, abile e inventiva nel riempire i vuoti e le zone stagnanti, affronta e racconta l’ultima giornata del poeta-scrittore-regista. Si parte con un’intervista in francese a una radio francese sull’imminente uscita a Parigi di Salò-Sade, di cui vediamo alcuni immagini, ancora sconvolgenti oggi, ancora insostenibili (e son passati quarant’anni, ed è passato ogni horror possibile, ma quella crudeltà non è mai più stata raggiunta). Si mostrano i fatti successivi della giornata, a casa con mamma Susanna e la cugina, la visita di Laura Betti tornata dalla Jugolavia dove ha girato con Jancso l’orgiastico Vizi privati, pubbliche virtù (una bravissima e credibile Maria De Medeiros, tra le poche scelte azzeccate in un gruppo di attori perlopiù miscast), l’intervista concessa a Furio Colombo (lo interpreta Francesco Siciliano) per la Stampa. A questa minuta cronaca familiar-quotidiana si aggiungono le immagini e gli echi dell violenza di quei giorni, di quegli anni Settanta, di quella Roma contesa tra fasci e antifasci, con morti lasciati sul marcapiede e faide feroci. “Siamo tutti in pericolo” è il titolo che Pssolini suggerisce a Colombo per l’intervista, ed è la chiave del film, quella usata dal suo regista, dal suo co-sceneggiatore Maurizio Braucci. Pasolini sciamano che sente, percepisce oscuramente il proprio destino e quello del mondo, i due sovrappponendoli. Pasolini profeta, innanzitutto della propria morte. Si parla nell’intervista con Colombo di pensiero magico. Ecco, questo Pasolini è un film costruito intorno al pensiero magico, conettendo fatti e cose, presentimenti e accadimenti, che la ragione non connetterrebe, con anticipazioni, percezioni, visioni di quel che sta accadendo altrove e accadrà. Si inseriscono nel corso della narrazione e della cronaca il romanzo che Pasolini stava allora scrivendo, Petrolio, e che sarebbe uscito molti anni dopo incompiuto, Ferrara ne visualizza, ne mette in scena alcuni passaggi. Come i pompini in serie nel famoso Pratone della Casilina. Come le chiacchiere nei salotti romani su retroscena, complotti, segreti della politica e dell’economia. Con perfino un racconto nel racconto, quello dell’aereo che precipita nel deserto del Sudan (e però quei ragazzi del deserto glamourizzati come modelli di un fashion-show e usciti da un book d’agenzia, ma si può?). Il che consente a Ferrara escursioni nell’onirico che sottraggono il suo film al piatto realismo, al cronachismo di altri che abbiamo visto sullo stesso tema, penso a quello di Marco Tullio Giordana, anche se poi non ne sfrutta appieno le chance visionarie e alterate come ci si sarebbe aspettato da lui. L’altro inserto, più corposo, pesante e anche molto più fastidioso, riguarda Teo-Porno-Kolossal, il film su un re magio di nome Epifano di cui Pasolini stava scrivendo la sceneggiatura e che avrebbe voluto realizzare con Eduardo nel ruolo portagonista e Ninetto Davoli come suo angelo accompagnatore e custode dal mondo terreno al mondo celeste. Ferrara gira il film di Pasolini che Pasolini non ha mai girato, il che per un regista è una bella sfida. Ci riesce? Mica tanto. Sceglie due attori completamente fuori parte. Il Ninetto Davoli di oggi come Eduardo è inattendibile, e solo un americano se lo poteva scegliere, e Riccardo Scamarcio come Ninetto (di allora) non ha più l’età e la naturale angelicità. Parte lunghissima, una vera zeppa nel film, con tanto di salita conclusiva al paradiso (che poi non c’è) dei due personagi in parallelo con la scena della morte di Pasolini a Ostia, e son cose che sarebbe meglio non fare. Di questo film mai realizzato vediamo anche il baccanale del giorno della fertilità. In una metropoli – Sodoma? – di gay e lesbiche una volta l’anno c’è l’accoppiamento tra uomini e donne per la perpetuazione della specie, in un rituale orgiastico che affonda le sue radici mi pare in certi riti mediterranei, e che Ferrara mette in scena correttamente, ma senza percepirne la barbarica ancestralità, e senza riuscire a comunicarcela. Anche qui usando facce e corpi da book di agenzia di modelli c’è molta fashionizzazione e glamourizzazione in tutto il film, come ha notato acutamente un critico americano di cui ahimé non ricordo il nome, con Willem Dafoe sempre agghindato comme il faut con tanto di occhiali modaiolissimi). Stranamente Ferrara di fronte a una materia così incandescente come l’ultimo giorno di Pasolini si ritrae, gira con estrema prudenza o forse svagatezza e non-partecipazione, non si concede quegli estremismi visivi, quelle derive nella follia che gli conosciamo e sono suoi. Solo certe parti notturne di Roma ci fanno venire i brividi, il viaggio verso Ostia, la spiaggia maledetta, la scena del delitto, stilizzato in una sorta di cerimoniale di morte. Il resto sembra non appartenere né a Pasolini né a Ferrara. Un corpo assemblato con più pezzi che non ce la fa mai a vivere, e nemmeno morire, di vita propria. Mi era sembrato vedendo il trailer, poi prontamente ritirato dalla produzione, che sulla morte di Pasolini non si sposasse nessuna visione complottistica e la si attribuisse al solo Pino Pelosi. Invece no. Nel film vediamo il regista-scrittore aggredito da quattro persone, quattro ragazzacci di vita che sbucano dal buio, gli danno del frocio e gli rubano la macchina. Amici di Pelosi che l’hanno seguito senza che lui sapesse? Quattro sbucati per caso? O mandati da qualcuno a regolare i conti con lo scomodo poeta-regista? Se ricordo bene c’è una sentenza in cui si asserisce che non fu il solo Pelosi l’aggressore, e immagino che a questo si siano attenuti Ferrara e Braucci. Io comunque non ho mai creduto a nessuna di queste ipotesi, ho sempre pensato che della morte fosse reponsabile il solo Pelosi. E adesso che le polemiche, dopo quelle veneziane, continuino. Val la pena ricordare come la stampa angloamericana sia rimasta nella sua gran parte piuttosto perplessa di fronte al film (con l’eccezione notevole del Guardian, molto positivo), mentre i francesi l’hanno già elevato a capolavoro, a opera massima di un festival, quello del Lido, a loro dire sempre più declinante e minore.
Magazine Cinema
Recensione: PASOLINI di Abel Ferrara. Un film sbagliato con però cose meravigliose
Creato il 25 settembre 2014 da LuigilocatelliPossono interessarti anche questi articoli :
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