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[Recensione] Pietà (di Kim Ki-Duk, 2012)
Creato il 01 febbraio 2014 da Frank_romantico @Combinazione_CPIETA’ (2012)
Kang-do è un trentenne crudele e brutale che si guadagna da vivere lavorando per uno strozzino. Un giorno una donna inizia a seguirlo, finché non gli confessa di essere sua madre, quella madre che lo aveva abbandonato alla nascita. Il cuore del giovane, privato dell’amore genitoriale, inizia a provare qualcosa per questa donna, la quale nasconde un inconfessabile segreto.
Abbiate pietà per Kim Ki-Duk, ad una certa età è comprensibile che la mente sforni meno idee, per questo esiste il pensionamento. Miyazaki docet. Sì, sarò spietata questa volta, non me ne vogliate. Sull’ultima fatica del regista coreano ne ho sentite a bizzeffe. Molta acclamazione (alla mostra di Venezia ha riscosso un successo incredibile), entusiasmo dilagante qua e là, ma anche delusione, perplessità, soprattutto per chi conosce molto bene la sua carriera. Io mi colloco tra i miseri che lo conoscono poco, credo di aver avuto il piacere di vedere le sue opere migliori, tra cui Ferro 3 – la casa vuota, Bad Guy e ricordo che mi piacque anche Time, nonostante le prime avvisaglie di incertezza. Pietà è un enorme passo falso, di quelli che mi irritano e che mi inducono ad una solenne severità di giudizio. Come quando gli alunni a scuola ti studiano le cose a memoria e ti fanno un’interrogazione splendida. Beccati ‘sta insufficienza, perché non hai capito niente. Essì, stiamo appunto parlando di un film dalla forma perfetta, ma i contenuti latitano. Una coreografia di schiaffi tempesta una narrazione incespicata, che con l’ausilio del denaro come causa di tutti i mali, racconta una storia di vendetta. Tema inflazionato, soprattutto per il mondo orientale, ne abbiamo già viste di tutti colori. Ed erano colori accesi, folli, allucinanti, terribili. Ed efficaci perché sempre accompagnati da un’aura poetica. Kim Ki-Duk con l’eleganza poetica aveva dimestichezza, chi non ha visto Ferro 3 lo recuperi immediatamente. In Pietà non ve n’è traccia, perde di senso la storia e non colpisce nel profondo. Appare solo un per un momento, donando l’illusione che forse non tutto è perduto, in una sequenza davvero meravigliosa, un inferno simboleggiato da delle scale d’emergenza, dove il salire o lo scendere portano allo stesso drammatico punto. Ma è, per l’appunto, un’illusione. Il simbolismo, per lo più provocatorio, rasenta il ridicolo. Feci che vengono ingoiate, apparenti incesti masturbatori, e tutta la parte in cui la madre di Kang-do coccola questo figlio ritrovato, risultano grottesche. Il percorso personale di Kang-do come figlio non ha senso, il suo essere spietato e privo di empatia verso il prossimo viene soppiantato da un burattino giostrato da una donna che più che incutere terrore, mi è parsa una macchietta. E il colpo di scena non è incisivo. Si comprende tutto già dall’introduzione, ma questo non è un problema. E’ proprio nel momento in cui i due protagonisti si affrontano, il momento in cui dovrebbe crollare il teatrino, che crolla piuttosto l’intenzione. Il resto è superfluo, come il finale. L’apoteosi dell’assurdo. Una scia di sangue percorre una strada, visione esteticamente suggestiva di una morte autoinflitta, ma che non ha davvero alcun senso.
Ki-Duk racconta una Seul degradata, si inoltra nei suoi sobborghi e ci mostra poveri artigiani indebitati per le più svariate ragioni. Eppure non mi si stringe il cuore, forse mi si è inaridito. O forse Ki-Duk non riesce a trasmettere quel sentimento di condivisione del dolore, tra dialoghi ridondanti e location tutte uguali. E la pietà di Michelangelo, diamine, cosa mi rappresenta? L’incomunicabilità tra la cultura orientale e la religiosità cristiana è evidente, i giochetti provocatori sessuali non scioccano, non portano ad una riflessione, non destabilizzano. Io, onestamente, mi sono annoiata. Che abbia vinto il Leone d’oro a Venezia dà da pensare. “Che i soldi siano maledetti!”, viene urlato a un certo punto. Pedante. Potrebbe essere un film propaganda del Movimento 5 stelle.
A mio modesto avviso, per Kim Ki-Duk la dissolvenza artistica è alle porte.
Silly
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