Se Dio vuole, un film di Edoardo Falcone. Con Marco Giallini, Alessandro Gassmann, Laura Morante, Ilaria Spada, Edoardo Pesce.Un ragazzo annuncia a babbo, mamma, sorella che vuol farsi prete, e nella sua laica e ricca famiglia prima scatta l’indredulità, poi il tentativo di capire e metabolizzare. L’incontro con un prete dai modi non convenzionali, Don Pietro, porterà il capofamiglia a ridefinir tutto, a partire dalla sua vita. Come in Teorema di Pasolini, niente sarà più come prima. Una commedia con idee che si confronta con il sacro, la fede, la religione, ovvero quello che oggi è il tema centrale del discorso collettivo. Grandissimo Marco Giallini. Voto 7
Nel sempre più asfittico e asmatico panorama della rantolante (stando agli incassi di questa stagione) commedia italiana capita ogni tanto qualcosa di buono. Un film che non ti aspetti, che osa oltre i battutissimi sentieri, che si sforza di costruire una solida narrazione senza affidarsi ai sotto-cabarettismi televisivi e alle strisce alla youtube, e che, rischiando anche il flop ma provandoci, cerca di raccontare certa Italia che non ti aspetti e cerca di sorprenderti. L’anno scorso era capitato con Smetto quando voglio, adesso arriva questo tutt’altro che perfetto, ma sant’Iddio con un pensiero dentro, Se Dio vuole. Una comedia romana e borghese (che presto però si cortocircuita con gli ambienti della nuova suburra metropolitana) la quale osa porre sul tappeto della famigliola protagonista la questione della religione, della fede, di Dio, dell’oltreumano. Cose che siamo abituati a rintracciare in certi film francesi, o in sofisticate comedy alla Woody Allen o giù di lì e poco trafficate da noi. Allora massimo rispetto, anche se la messinscena resta abbastanza scolastica ed è assai più conservatrice e meno daring dello script. E però a raddrizzare molte cose c’è un Marco Giallini fantastico, da premiare con molti premi subito, qui alla migliore prova della sua carriera, che butta nel suo personaggio di cardiochirurgo assai soddisfatto e arrogante e pieno di sé un’infinità di sfumature e sottigliezze man mano che la realtà, e lo sviluppo del racconto, lo mettono di fronte a questioni, scelte, crisi mai prima affrontate. Lui, con un lontanissimo passato da blando sessantottardo, con una moglie pure lui ex barricadiera e adesso ridotta a fare la vestale del focolare borghese con prevedibili accensioni bovaristiche, lui, un laico un po’ framassonico uso a liquidare faccende come la fede, la religione, l’impegno nella chiesa come fandonie da plebe arretrata e primitiva, si ritrova un giorno il figlio, l’unico figlio maschio, che devia dalla retta via su cui era stato instradato. Studi di medicina, quindi carriera ospedaliera che continuasse quella paterna. Invece un bel giorno il ragazzo Andrea convoca una riunione di famiglia “perché vi devo fare una comunicazione importante”. Siccome lo vedon sempre uscire la sera in vespa (o altro scooter) con un ragazzetto, pensano, mamma, papà, sorella e pure cognato becero, che lui sia gay. Ma si tratta d’altro, forse peggio per l’ateo chirurgo Tommaso. L’Andrea annuncia che vuole farsi prete, “lascio tutto e entro in seminario”. Che è un bel colpaccio di scena, di quelli che ti aspetti in certa commedia parigino-chic e invece te lo ritrovi qui, sotto il sole di Roma. Dolore, stupore, malumore per babbo e mamma, e la voglia, fors’anche la necessità di sapere perché, cosa mai sia successo, e se c’è qualcuno o qualcosa dietro a quella follia. Ma come, un ragazzo che ci ha tutto in seminario? Non ci si mette molto a scoprire che dietro ci sta un prete. Un prete di nome Pietro. Don Pietro, che ha un suo seguito di fedelissimi cui tiene sermoni settimanali in uno stile non proprio della massima ortodossia. Dove in modo ruvidi e assai popolari cerca di avvicinare quei ragazzi a Gesù, e a Dio, con un linguaggio diretto, da strada, lui che dalla strada viene, e che è stato in galera prima di scoprire la sua vocazione e avere la sua via di Damasco. Un prete che quando predica sembra modellato su quei ministri di certi culti evangelici che alzano al massimo la tensione emotiva e entrano in ccomunicazione empatica e prerazionale con i fedeli. Anche prete un po’ operaio genere Chiesa di base e/o del dissenso dell’Italia (e della Francia) tra anni Sessanta e Settanta, visto che lui lavora e si sporca le mani cercando di rimettere in sesto una chiesucola di periferia abbandonata da tempo tra pessimi graffiti e siringhe. Con una qualche venatura, mi pare, del neofrancescanesimo dell’attuale papato. E magari un’eco lontana del Don Buro di Christian De Sica nel vanziniano Vacanze in America. Personaggio non so quanto attendibile – di sicuro il borghese Tommaso lo è di più -, ma che dramnmaturgicamente funziona assai bene fungendo da perfetto polo d’opposizione e contraltare dialettico a quello del chirurgo scettivo e cinico. L’asse del film difatti è il loro incontrarsi-scontrarsi da opposti, il loro attrarsi e respingersi, il reciproco piacersi nonostante le differenze. Con Tommaso che per mascherare la propria identità di padre del ragazzo aspirante seminarista si finge un sottoproletario (e la scena della simulazione plebea nella stamberga è tra le cose migliori del film) con Don Pietro, ma poi, scoperto, per punizione, anzi per penitenza obbligatoria del suo peccato, dovrà aiutare il prete nella restauranda cappella. Intanto in famiglia si cominciano a perdere i pezzi. La moglie riscopre il fascino dell’antica militanza e si trasforma in pasionaria di un liceo occupato, la figlia apparentememnte acefala si avvicina a modo suo alla religione, e tutte e due mettono sotto accusa il marito e padre padrone. Mentre la domestica peruviana assiste impassibile alla dissoluzione. Alla fine niente sarà più come prima, e la famiglia sarà un’altra famiglia. Quell’incrociare sulla propria strada Don Pietro, e con lui il sacro, il religioso, è stato il lievito evangelico, l’innesco di mutazioni a catena. Come mi ha fatto rilevare una mia amica, lo schema di racconto ricorda molto da vicino quello di Teorema, il più bel film di Pioer Paolo Pasolini. Là era il misterioso e angelico ospite Terence Stamp a fare da rilevatore e detonatore delle latenti contraddizioni di una famiglia più che benestante, qui è Don Pietro, e quanto di sacro la sua figura si porta addosso. E chissà se di questa analogia gli autori si saranno resi conto. Stupisce la cura, insolita in una commedia italiana, dell’architettura narrativa, dove ogni elemento sta al posto suo e si incastra on gli altri a comporre un insieme compatto e coerente. Dialoghi arguti, che poco indulgono al più facile battutismo, e sempre funzionali alla definizione e allo sviluppo di caratteri e snodi narrativi. Regia corretta e discreta, anche se qualche guizzo in più sarebbe stato gradito. Gli interpreti: di Marco Giallini si è detto, resta da dire di Alessandro Gassmann, che è un credibile e perfetto, e carismatico, prete operaio. Che a vederlo oggi così bravo vien da pensare a com’era, timido e impacciato, ai suoi inizi di attore. Laura Morante, bellissima, è la moglie Bovary, Ilaria Spada come figlia di tendenze coatte mostra di averci le corde giuste per la commedia, e chissà perché la si vede così poco al cinema. Nel suo porre al centro il sacro e la fede, Se Dio vuole conferma come oggi nel discorso collettivo e pubblico sia la religione di gran lunga il tema, il topic, più interessante. Al primo weekend di programmazione gli incassi hanno superato il milione di euro, etutti meritati.
Magazine Cinema
Recensione: SE DIO VUOLE. Una commedia italiana che finalmente osa qualcosa
Creato il 15 aprile 2015 da LuigilocatelliPossono interessarti anche questi articoli :
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