sembra Il tè nel deserto: è Bond
Questa puntata numero 24, quarta dell’era Daniel Craig, non delude, anzi. Basta non fare troppi paragoni con il forse inarrivabile Skyfall, di cui non ha uno scioglimento altrettanto potente. Altri (minimissimi) difetti: troppo lungo, e una parte centrale non così spedita. Ma di bello e bellissimo ce n’è in quantità, a partire dalla sensazionale sequenza d’apertura a Città del Messico. E le due signore, Monica Bellucci e Léa Seydoux, sono all’altezza del mito. Finale che non ti aspetti. Gran lavoro di regia di Sam Mendes che autorializza senza darlo a vedere la massima icona dell’entertainment cinematografico. Voto 8
Di suo sarebbe (è) un bellissimo Bond, questo Bond numero 24, quarto dell’era Daniel Craig, il secondo diretto da Sam Mendes. Solo che si porta addosso la responsabilità, fors’anche la colpa di venire dopo
Skyfall, vale a dire il massimo successo di sempre della ormai cinquantennale 007-saga, massimo successo presso la stampa (mai i critici erano stati così unanimi e compatti nell’osannare), massimo successo presso il pubblico, che gli ha fatto superare la stratosferica soglia del miliardo di dollari di incasso worldwide. Aggiungeteci due Oscar vinti, e mi pare fossero i primi nella storia di 007, e la nomination com migliore film dell’anno, e avrete il quadro completo di cosa abbia voluto dire
Skyfall e di quante e quali fossero le aspettative intorno a
Spectre. Oltretutto,
Skyfall aveva riscritto lo stesso paradigma Bond, operando sull’agente al servizio di sua maestà un reboot simile a quello attuato per radicalità da Christopher Nolan su Batman (e mica per niente Nolan era stato a lungo in ballo per dirigere
Spectre, anche perché si diceva che Sam Mendes inzialmente riluttasse a riprendere in mano la faccenda temendo di doversi confrontare con i suoi stessi risultati). Anche, si era riposizionato il prodotto a uso di un pubblico che non fosse solo quello popolar-tradizionale di sempre, ma anche più giovane e popcorniano, e pure di un pubbico più sofisticato, complessificando e stratificando e multidimensionando parecchio il personaggio JB e il reticolo narrativo che lo vedeva al centro (e prigioniero, per l’ineluttabilità e inesorabilità dello schema narrativo in cui agiva ed era agito). Via le cazzullagini più orrendamente gadgettistiche, le macchine volanti e altri trucchi da magazzino polveroso del cinema action, riproposti semmai con nuova consapevolezza tecnologica. Sotto controllo anche quelle ironie e battute sceme, quello spirito che negli anni Sessanta si definiva ‘di patata’ (che però tanto aveva contribuito all’edificazione del mito Bond), immettendo invece dosi massice di dramma e perfino tragedia, con scontri di personalità e di potere similshakespeariani, e una intensità emotiva, e traumi, e ferite psichiche da pronto intervento freudiano. E atmosfere torbide e perfino plumbee, un clima paranoide di costante minaccia e allerta, una darkitudine sparsa abbondantemente e dappertutto fino alle rivelazioni finali che riscrivevano radicalmente la stessa traiettoria Bond, ed eliminavano dalla scena e dalla sua vita, in uno shock forse mai più smaltibile, la Grande Madre M di Judi Dench. Chi si ricordava gli 007 fresconi e grulli dell’era Roger Moore restava basito, e però definitivamente conquistato. Che se poi si va a leggere Ian Fleming (ripubblicato da Adelphi) si scoprirà che è questo roccioso ma intimamente fallato e pochissimo sorridente 007 di Daniel Craig assai sturm und drang il più fedele all’originale messo in pagina, mica quello cazzeggione che per decenni abiamo visto (sì, anche nella versione Sean Connery). Dopo un simile reboot cosa mai volete che potessero fare di più gli sceneggiatori (gli stessi di
Skyfall, John Logan, Neal Purvis, Robert Wade, cui si è aggiunto Jez Butterworth) e il regista Sam Mendes, e la coraggiosa produttrice Barbara Broccoli, e Daniel Craig? Difatti non si va oltre, cercando intelligentemente di replicare l’impresa, e riuscendoci in pieno. Vero, non ci sono molte sorprese stavolta, il finale – ancora imbevuto di amori e rancori familiari e shock infantili – non è però così sconvolgente come la resa dei conti con il passato laggiù nella campagna piena di fantasmi di Skyfall. E a tenere un gradino, ma solo un gradino più giù
Spectre (che come ogni cultore di 007 sa è la piovra, la multinazionale e sovranazionale del terrore che minaccia il mondo) rispetto alla puntata precedente c’è anche lo sciagurato recupero – per fortuna in dosi omeopatiche – del suddetto famigerato spirito di patata dell’era Roger Moore e ahinoi anche Sean Connery, con battutazze a Martini in mano e guizzanti e maliosi sguardi occhicerulei che vien voglia di chiamare la forza pubblica per fermarli (e se qualcuno tra produttori e sceneggiatori pensa per il prossimo episodio di intensificare il tasso di presunto british humour è scongiurato fin da adesso di non farlo). Tutto si snoda secondo il canone bondiano, benché rebootizzato. E dunque inseguimenti di massimo rischio e massima fantasia e visionarietà, un cattivissimo al lavoro per sottomettere il mondo ai propri porci voleri, caccia al villain di qua e di là del pianeta onde titillare lo spettatore con location da urlo, fino al confronto tra il bene e il male in una specie di ordalia da cui non dipendono solo vita e destino di James Bond, ma pure quelli dell’umanità tutta. Intano a Londra, nel nuovo building dei servizi segreti che dvrebbero essere al servizio di sua mastà (e sembra la sede in versione archistar di una qualche setta alla Scientology), si ordiscono intrighe e congiure di palazzo come neanche nel più feroce Shakespeare. Come già in
Skyfall, circola un’atmosfera di decrepitezza, di decadenza, di sfinimento, di fine imminente del mito, con un Biond invecchiato che il nuovo signore dei servizi chiamato C detesta e pensionerebbe volentieri, mentre la notte dei lunghi coltelli là sul Tamigi sembra non finire mai. Tutta la branca gestita da M (che è Ralph Fiennes, suceduto a Judi Dench), il leggendario MI6, e dunque Bond e anche l’adorata Moneypenny e il genietto dei congegni Q, sta per essere fusa con quella capitanata dall’ambizioso C e finire sotto il suo controllo. Un impero del nostro immaginario, casa Bond, sta per cadere e dissolversi, ma non sarà così, ovvio. Si comincia con una sensazionale scena a Città del Messico durante la festa dei morti, mascheroni e scheletri dappertutto, e un Bond sulle tracce di un pericoloso criminale italiano, scena tutta girata in un virtuosistico piano sequnza di parecchi minuti da lasciarci tramortiti, con un Sam Mendes scatenato che sembra rifare il Brian De Palma dell’incipit di
Omicidio in diretta e, ebbene sì, perfino l’inizio di
L’infernale Quinlan di Orson Welles. Il tutto a velocità scatenata, fino al crollo i un intero palazzo che trascina Bond in una voragine, e poi via con il duello in aria, sull’elicottero che rischia di precipitare sulla folla di Città del Messico. Talmente bello, l’attacco di
Spectre, che ti chiedi cosa poi Mendes possa fare di più, e difatti non lo fa, non sarebbe possinile, e anche questo se vogliamo è uno dei (minimi) difetti di
Spectre, che il meglio è subito, e quel vertice non lo si tocca più, nonostante le molte cose belle e bellissime. Quello scontro in Messico in cui ha messo a repentaglio la vita di molti costa caro a Bond che fnisce sotto esame e sotto inchiesta. Ma a fargli tornare la voglia di combattere è un video postumo di M-Judi Dench che invita a muoversi sulla tracce di un tizio, e di un’organizzzione. Scopriremo che si tratta della Spectre, il cui capo, il tremendo tedescofono Franz Oberhauser (Christoph Waltz, ovvio), ha avviluppato il mondo in una rete informatica di pervasivo e capillare controllo su vite, persone, azioni, comunicazioni, cose, fatti. Con una centrale operativa mimetizzata tra le rocce del Sahara marocchino. Avete in mente l’occhiuto (e orecchiuto) sistema denunciata da Edward Snowden? Ecco. Però più malefico e ramificato, secondo le mitologie del Male assoluto costruite da Ian Feming e dai film che ne sono derivati. James Bond si sposta da Londra a Roma (in una Roma notturna di palazzi aristocratici assai debitrice alla sorrentiniana
Grande Bellezza e anche da cose come queste ci rendiamo conto di cos’abbia voluto dire quel fim nel riaffermare il fascino italiano e riportare Roma e l’Italia tutta al centro dei desideri globali rendendole di nuovo sexy e dsiderabili), e poi l’Austrao delle nevi, e una clinica della salute sinistramente, nazisticamente linda e pulita sui picchi svizzeri, e Tangeri (purtroppo pochissimo sfruttata: si poteva e si doveva fare di più), e da lì giù, in treno, nel deserto di Ouarzazate. Quello che segna
Spectre e lo rende notevole e assolutamente consigliabile è la regia di Sam Mendes che, ancora di più che in
Skyfall, si muove secondo una visione assolutamente inventiva e autoriale,per niente derivativa, che cita sì l’intera tradizione cinebondistica e insieme la ripropone e riproduce a un grado si raffinatezza formale e di composizione visuale, e di movimenti della macchina da presa, prima inconcepibili. Non solo la magnifuca sequenza d’inizio, che suona anche come una dichiarazione programmatica da parte di Mendes, ma anche l’inseguimento lungo il Tevere o l’arrivo nella villa romana della vedova Lucia, con quel primo piano di Monica Bellucci e i due killer dietro di lei pronti a ucciderla, e l’intervento improvviso di Bond, orchestrato come in un action-musical tra Stanley Donen e il Wong Kar-wai di
The Grandmaster. Ma è tutto il film a muoversi secondo un battito cardiaco costante, una pulsazione che dà il ritmo e il mood a ogni scena, a ogni personaggio conferendo una compattezza segreta eppure percettibile. Sam Mendes senza darlo a vedere tratta la sceneggiatura come uno spartito e organizza la narrazione come un direttore d’orchestra, agendo sul tempo, il ritmo, la forma, il movimento non potendo più di tanto intervenire sui contents, che son quelli che sono, immarcescibili e inscalfibili, cioè Bond. Come già in
Skyfall, attenua le spacconerie e infragilisce il suo protagonista, anche per togliergli quell’aria da bauscia, da bullo che gli si era creata intorno negli anni Sessanta-Settanta. Il suo è un approccio umani, molto umano, anti eroistico, anti super eroistico, e finisce col pagare pienamente. Le stesse Bond girl (che orripilante definizione) non son mica pupe e pupattole. Monica Bellucci, utilizzata benissino quale vedova di un semimafioso, è bella e perfetta, è vero che la vediamo sì e no per qualche minuto, ma è di quelle presenze che marchiano un film. Léa Seydoux: va bene, io l’adoro da anni, quindi son di parte, ma non posso non dire che è la migliore ragazza Bond della storia, insieme alla Daniela Bianchi di
From Russia with Love e alla Eva Green di
Casino Royale. Essendo l’attrice che è, ce la fa a spogliare di ogni cliché il suo personaggio e a insufflargli verità, e insieme a rinfrescare la leggenda 007 nella lunga sequenza del treno che non può non ricordarci quella sull’Orient Express di
Dalla Russia con amore. Certo, due ore e venti son tanta roba, la parte centrale ha qualche rallentamento e qualche minuto lo si sarebe potuto utilmente tagliare, ma va bene lo stesso, lo sprttacolo c’è, e Bond pure (e però bisogna anche dire che Daniel Craig comincia a mostrare i segni dell’età sua).