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Recensione: Splendore, di Margaret Mazzantini

Creato il 14 aprile 2014 da Mik_94
Ormai è sera, anche se il sole c'è ancora, fuori. Raramente condivido con voi i miei post a quest'ora. Ma volevo liberarmi di questa storia e dedicarmi ad altro il prima possibile. Com'è Splendore? Splendore è bello, intenso, tristissimo. Lontano dalla perfezione di Venuto al mondo, ma di un imperfezione che lo rende estremo e coraggioso. Il voto è lo stesso, il voto è diverso. Una storia non per tutta i palati, raccontata con un'indelicatezza a cui ti abitui e con uno stile barocco di cui diventi dipendente. A coloro che non conoscono l'autrice, consiglio di iniziare da altro: gli altri non penso che avranno scuse che tengano. Questo è. Buona lettura. Che il vostro lunedì sia stato produttivo e felice. Un abbraccio, M. E davvero accadde, e fu contro natura, e davvero vorrei sapere cos'è la natura, quell'insieme di alberi e stelle, di sussulti terrestri, di limpide acque, quel genio che ti abita, che ti porta a fronteggiare a mani nude le tue stesse mani e tutte le forze del mondo. Allora fu natura, la nostra natura che esplose e trovò l'espressione più dolce e benevola.
Recensione: Splendore, di Margaret MazzantiniTitolo: Splendore Autrice: Margaret Mazzantini Editore: Mondadori Numero di pagine: 309 Prezzo: € 20,00 Sinossi: Avremo mai il coraggio di essere noi stessi?" si chiedono i protagonisti di questo romanzo. Due ragazzi, due uomini, due destini. Uno eclettico e inquietto, l'altro sofferto e carnale. Una identità frammentata da ricomporre, come le tessere di un mosaico lanciato nel vuoto. Un legame assoluto che s'impone, violento e creativo, insieme al sollevarsi della propria natura. Un filo d'acciaio teso sul precipizio di una intera esistenza. I due protagonisti si allontanano, crescono geograficamente distanti, stabiliscono nuovi legami, ma il bisogno dell'altro resiste in quel primitivo abbandono che li riporta a se stessi. Nel luogo dove hanno imparato l'amore. Un luogo fragile e virile, tragico come il rifiuto, ambizioso come il desiderio. L'iniziazione sentimentale di Guido e Costantino attraversa le stagioni della vita l'infanzia, l'adolescenza, il ratto dell'età adulta. Mettono a repentaglio tutto, ogni altro affetto, ogni sicurezza conquistata, la stessa incolumità personale. Ogni fase della vita rende più struggente la nostalgia per l'età dello splendore che i due protagonisti, guerrieri con la lancia spezzata, attraversano insieme. Un romanzo che cambia forma come cambia forma l'amore, un viaggio attraverso i molti modi della letteratura, un caleidoscopio di suggestioni che attraversa l'archeologia e la contemporaneità. E alla fine sappiamo che ognuno di noi può essere soltanto quello che è. E che il vero splendore è la nostra singola, sofferta, diversità.                                                  La recensione Recensione: Splendore, di Margaret Mazzantini Amore mio, amore mio infinito. Amore mio oltre le tempeste e i sogni, amore mio oltre gli orchi e la vergogna, amore dolce, amore violento, amore violato. Amore. Certi libri hanno il potere di scatenare strane reazioni. Singolari tempeste interiori. Per esempio, chiuso Splendore, oggi, sono andato a fare la spesa. Ho infilato il libro sotto il cuscino e, sotto il sole di mezzogiorno, con la maledizione di una miopia che mi vuole cieco e accecato dai raggi, sono andato in cerca delle dispense di Storia del teatro e degli ingredienti di una ricetta lampo che mamma - alla cornetta - mi aveva consigliato la domenica prima. Ho cucinato e ho perso tempo ai fornelli. Mi sono attardato a tagliare le zucchine in piccoli pezzi, ho lasciato che la pasta cuocesse per undici minuti tondi tondi e che la cipolla e la pancetta rosolassero senza bruciarsi. Con la schiuma fino ai gomiti, al lavello, con i polsi spogliati da braccialetti estivi e orologio, mi ha colto - d'un colpo solo - lo splendore di Margaret. Nel momento meno poetico di questo mondo bieco. Lo splendore era un peso, a pranzo, nella tasca dei jeans. Il portamonete svuotato, il cellulare come un mattone. Quel pezzo di plastica antico, gravido d'ispirazione, pesava di parole. Tra le bozze, pensieri sparsi affidati all'unica memoria che non tradisce - raccolti a lezione, alla fermata del bus, prima di coricarmi. C'era una lista della spesa. Il pasto degli studenti soli in una città che, per quanto vicina, non è la loro. Una cosa di ogni cosa: una birra, un pacco di biscotti, deodorante, dentifricio in offerta, un frutto. C'era anche un'idea che giorni prima mi era sembrata affascinante. C'erano i flash di immagini che il libro in lettura - insonne, triste, senza riposo - mi aveva suggerito. Nel cuore della notte, nel palmo di rosa del giorno. Dappertutto. Un'epifania tra le bolle blu del sapone per i piatti, il vociare farneticante di tanti Master Chef per un'ora, Leonard Cohen che - nelle cuffie dell'Ipod - intonava il ritornello del suo capolavoro. Le mani che facevano cic-ciac nel lavello, il rubinetto che liberava una piccola cascata gorgogliante, Hallelujah in testa. Il direttore d'orchestra era il ragazzo in copertina sull'ultimo capolavoro dell'autrice di Venuto al mondo. Una figura dai contorni arancioni con le braccia lunghissime tese verso un cielo confetto. Intorno, il mare. Quel mare che è un dio onnipresente, il protagonista più tenace della storia. C'è sempre. D'inverno e d'estate. Con i lampi e il sole. A sedici anni, così come a sessanta. Spiana tutto, lui. I corpi sospesi nel vuoto, i piedi a un palmo dalla sabbia, gli uomini bassi che - galleggiando - possono essere alti quanto giocatori di basket. Colma un dislivello, lui. Come l'ascensore cigolante, antiquato, rugginoso che unisce sopra e sotto, cantina e attico, figlio del portiere e figlio del dermatologo. Costantino, che ha una mamma che odora di ragù e patate fritte; Guido, che venera la sua eterea e misteriosa Georgette come un pellegrino fa con la sua Santa. 
Recensione: Splendore, di Margaret Mazzantini A renderci partecipi di questo nuovo ciclo dei vinti, di questo carnevale umano dalla bellezza ottusa e orgogliosa, è il secondo. Lo Zeno Cosini degli anni settanta. Lo Jep Gambardella imberbe che si crogiola nella stessa Grande Bellezza di Sorrentino: Roma. La sua, una voce cinica, acidula, glaciale, che parla di generazioni vecchie e nuove, di matrimoni e funerali, del logorio della vita moderna che è lento, esasperante e infallibile come una goccia d'acqua che fa buchi nella pietra. Ha il tempo libero per inutili fantasie suicide, per sbattere i piedi a terra e fare i capricci, per buttare - con tonfi e scenate da melodramma - i giocattoli indesiderati dalla finestra. Giù. Nel cortile di un condominio all'ombra delle palme. Costantino ha il nome di un imperatore, invece; un esercito di buone intenzioni, ma un destino ovvio da servo della gleba. Raccoglie quei giocattoli e li rende suoi: nella sua infanzia sono mancati - con i soldi che non erano mai abbastanza, le bollette che erano sempre troppe. Raccoglie, nel palmo della mano callosa e calda, anche Guido, che nella sua mente di bambino arrogante, saccente e dispettoso ha seguito i suoi giocattoli - in quel volo nel vuoto - un'infinità di volte. Ha architettato il suicidio pubblico di una povera tenda da campeggio, del puzzle di un guerriero acheo con un occhio solo... il suo. 
Recensione: Splendore, di Margaret Mazzantini Ma ha sacrificato i suoi giochi, in nome di una codardia che lo accompagnerà fino alla vecchiaia solitaria: l'espiazione, giusto nell'ultima rigo. Sotto un cielo che è un'incerata arancio, i due bambini diventati ragazzi si amano. Un tenda sulla spiaggia che nasconde quello che hanno scoperto di saper fare con naturalezza, senza che nessuno lo insegnasse loro. Sono cucchiai in acciaio. Piegati su sé stessi, ricurvi, incastrati l'uno tra le scapole dell'altro. Non sono - tuttavia - destinati allo stesso cassetto. In mezzo a loro, cucchiai scavatori e mogli; forbici sprovviste della punta arrotondata di Art Attack e figli; coltelli che incidono e nipoti. Sono gobbi di Notre Dame aggrappati all'Altare della Patria e al Colosseo, in cerca d'asilo presso angeli col kimono e madonne di paese con la parlata meridionale. Ombre cinesi che si parlano e si baciano. Mani che imitano bocche e voci stridule e che si domandano - all'ombra dell'abat jour - il perché della loro sofferenza, il perché del loro amore disperato, il perché della loro clandestinità coatta. Si ritagliano la felicità che non pensano di meritare: stanze d'albergo, grotte e macchine sono il passaporto di quei due clandestini italiani. Dopo una gita al mare, lontani dalle mogli, si fingono padri di due figli. Il mare è loro amico: il balcone al buio di Romeo e Giulietta. Parlano d'invecchiare insieme, e - in quelle pagine - sono di una tristezza che è siderale, senza fondo. Il loro mondo è scuro, cruento e disonesto, e nemmeno volere bene e lasciarsi volere bene sembra facile. 
Recensione: Splendore, di Margaret Mazzantini Un mondo come il nostro. Dio si è vendicato e ci ha reso tristi umani per natura, all born to die. Lana Del Rey lo canta, alla radio, e noi ci grattiamo le palle, tanto per superstizione. Triste... E Splendore, triste, lo è quanto Venuto al mondo, se non di più. Quella era una storia d'amore spezzata dalla guerra. Non te la spieghi, la guerra. Sai quando inizia, non sai quando finisce. Qui poteva essere tutto più semplice, e invece la tragedia è puntualmente appostata dietro l'angolo per farci booo!. L'amore malinconico tra questi due uomini ha un inizio e ha una fine. Non ha tregue, ma avrebbe potuto averne. Sarebbe bastata una legge, legalizzare un semplice sì, un po' di coraggio. Venuto al mondo era ed è un romanzo innegabilmente bellissimo. Senz'altro più bello e perfetto di questo. E' più facile che piaccia. Gemma si scopre una protagonista con una forza incredibile: quella delle donne. E’ un personaggio ben definito, una figura a cui voler bene come una madre. Gli uomini della Mazzantini, invece, sono tutti come Diego - il fotografo di pozzanghere. Vedono la vita scorrere tra le fessure delle loro dita, non agiscono, si nascondono nello stanzino delle scope a tempo indeterminato. Quando gli uomini sono due, tutto è più difficile e triste ancora. Quando è un amore omosessuale quello di cui si parla, tutto è un campo minato. L'unica loro forza sta nella scelta segreta dei loro nomi. Secchi, ruvidi, bruschi. Insieme ai loro nomi, così i loro pensieri - incensurati e doverosamente incensurabili. Truculenti, pesanti, sconci. Gli ingredienti della loro storia: due cuori, un amore impossibile, corrente elettrica, un frullatore. Macinare tutto. Una julienne di "ex" cuori, per un cuoco pugliese e un professore di storia dell'arte che mastica poco e male l'inglese. Fois gras di fegato umano, una relazione cannibale. Quel penultimo capitolo, però, ti accoglie con un odore di tufo e di campi, di terra bagnata. Gabriel Garcìa Màrquez avrebbe descritto l'odore delle mandorle amare. Sono passati cinquant'anni dalla prima pagina e sono sempre entrambi maschi, ma ricordano Fermina Daza e Florentino Ariza al funerale del marito di lei. Vecchi - contro le mogli, i figli, il colera dell'omofobia. E non ci pensi. A tutte le difficoltà, al fatto che abbiano entrambi il pisello. E lo sai. Sai che quello è amore. Come fai a non vederlo? E poi quel finale arriva, così. Piomba dal nulla. Crudele e inaspettato. Una sposa incinta che macchia il suo vestito bianco del sangue dell'aborto. Una sferzata di pioggia su un prato, a Pasquetta, che annacqua i panini, allunga il vino e lo spumante con l'acqua del cielo, bagna le coperte, strema la terra. Ad alcuni lettori ha ricordato I segreti di Brockeback Mountain, o così ho letto. Ma le storie d'amore sono tutte uguali, si ricordano tutte tra loro. Sono gemelle siamesi aggrappate per le viscere, anche se non c'è nessun Heath Ledger che cerca l'odore di Jake Gyllenhaal in una camicia da cowboy, all’ultimo. Si va in apnea. Non si respira. Si cerca di farsi crescere le branchie e di respirare sott'acqua, fino alla Grecia. Fino a quel chioschetto abbandonato, visto nel viaggio della maturità, in cui vivere felici, giocare a marito e marito, essere un Ulisse che aspetta un altro Ulisse. Quella di Margaret Mazzantini è un'importante operazione a cuore aperto. Una ferita dai labbri dischiusi, che lascia vedere il rosso del sangue e il bianco giallastro di un osso. Certi romanzi meriterebbero le avvertenze prima dell'uso, i foglietti illustrativi delle farmacie. Non le fascette promozionali, non l'ennesimo titolo di ennesimo caso editoriale. Alla Mazzantini non serve, tanto. Lei – come poche - è grandiosa. Lei - come il fumo - è tossica. Nuoce gravemente alla salute. Però c’è un però. In giro friniscono le cicale, gli esami sono lontani, ti canta nelle orecchie Leonard Cohen e tutto - anche quello scampolo di vita che hai - ti appare talmente splendido da domandare, a scrocco, un'altra sigaretta. E' una metafora, questa. Ma tu non vergognarti del viaggio. La vita, credimi, non è un fascio di speranze perdute, un puzzolente ricamo di mimose, la vita raglia e cavalca nel suo incessante splendore.
Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Leonard Cohen – Hallelujah (Jeff Buckley's version)



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