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Recensione: SUBURRA, un grande film a metà

Creato il 12 ottobre 2015 da Luigilocatelli

foto-suburra-38-lowfoto-suburra-5-lowSuburra, un film di Stefano Sollima. Sceneggiatura di Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Giancarlo De Cataldo, Carlo Bonini. Con Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola, Alessandro Borghi, Greta Scarano, Giulia Elettra Gorietti, Antonello Fassari, Jean-Hughes Anglade. Al cinema da mercoledì 14 ottobre.foto-suburra-4-low

Formidabile la regia di Stefano Sollima, che si inventa una Roma cupa, lurida, laida, perlopiù notturna, invasa dal fango, flagellata dalla pioggia. Ma lo schematismo con cui Suburra racconta le mani sulla città di vecchi e nuovi poteri criminali, e il loro intreccio con la politica, si fa fatica a digerirlo e impiomba il film. Un’operazione rigidamente a tesi, da vetusto cinema militante, riscattata solo dalle visioni e dal senso del cinema di una messinscena potente. Molti echi e derivazioni da film e tv precedenti. Facendo la sommatoria dei più e dei meno: voto 7 (però 9 a Sollima)

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La sensazione è che il nostro cinema, inteso come sistema industriale, si giochi parecchio con questo film. Dall’esito in sala di Suburra (verrà distribuito nella quantità enorme di 500 copie) dipenderà parecchio. Tanto per cominciare, la rinascita di un cinema di genere italiano in grado di triturare e metabolizzare i dati della nostra cronaca e storia per farne spettacolo a uso delle masse, rinascita sempre invocata e mai del tutto realizzata. E poi la vendibilità su scala mondiale dei nostri prodotti audiovisivi, la prospettiva di riacquistare un posto decente nel ranking dell’intrattenimento globale, la capacità di dar vita a spin-off e serialità televisive che siano competitive con le meglio cose provenienti da America, UK e Francia (Netflix, che figura tra i credits d’apertura, ha già annunciato che ne trarrà una serie). Saranno gli incassi a dare la risposta. Intanto, a film appena visto alla proiezione stampa, è il caso di chiedersi se il lavoro di Sergio Sollima abbia le spalle abbastanza robuste per reggere il gran carico di aspettative che gli si sono riversate addosso. Mah. Mi chiedevano alla fine del press screening qui a Milano cosa ne pensassi e io son sbottato, senza pensarci troppo su, in un: è una sublime cazzata. Certo sono andato giù un po’ troppo col machete semplificando e esagerando parecchio, e però a qualche giorno di distanza nella sostanza confermo. Suburra è girato da Sergio Sollima con una maestria e una consapevolezza stilistica altissime, con un’impronta profondamente nostra, frutto della storia del nostro cinema, e insieme allineato ai più avanzati e sofisticati linguaggi dell’action e del noir made in Usa. Peccato che tanta meravigliosa abilità di messinscena sia al servizio di un racconto di insopportabili schematismo e rozzezza, nonostante che per la sceneggiatura si siano messi all’opera nomi di fama e mestiere consolidati, lo storico duo di tanto nostro cinema (e tv) Stefano Rulli-Sandro Petraglia, più Carlo Bonini (da un suo libro inchiesta era tratto il precedente film di Sollima ACAB ) e Giancarlo De Cataldo, sì, l’autore di Romanzo criminale, il libro-matrice da cui tutto poi si è generato, il film di Michele Placido e la successiva Sky-serie. Più che un plot, un racconto didascalico e a tesi da vecchio cinema militante e di impegno civile, intriso di un sotto-brechtismo un po’ Mahagonny un po’ Arturo Ui con parecchi villain al lavoro, teso a dimostrare che oggi Roma Capitale è proprietà privata di una cosca dove poteri criminali, politici ed ecclesiastici si intrecciano. La nuova piovra è qui, con i suoi tentacoli che tutto e tutti strangolano. Ora, d’accordo che fior di indagini giudiziarie e inchieste giornalistiche ci hanno raccontato in anni recenti e pure in mesi recentissimi tutti i fetori e i miasmi della cloaca capitolina, ma santocielo, si potrà essere un filo più sfumati e sottili nel riscrivere la cosa per il cinema, si potrà mettere a punto personaggi e caratteri che non siano solo puri ruoli, pure maschere fisse e manichini cui appendere il messaggio? Si comincia con una sequenza che farà infiammare e perfino orgasmare gli stranieri, specie le platee anglofone e tedesche così antipapiste e sempre deliziate dai peccati vaticani e dai torbidi segreti all’ombra del cupolone, dove vediamo nientedimeno che un papa di spalle assai somigliante a Ratzinger confidare qualcosa a un pretino, mentre incombe l’ombra di un ambiguo alto prelato.

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Uno degli assi della narrazione è stabilito: la centralità, ora e sempre, della Chiesa nella vita e nelle vite di Roma, secondo un cliché che resiste immarcescibile a ogni sovvertimento e evoluzione culturale e dei modi di rappresentazione del nostro paese. Quel che segue è l’esplicazione di quanto di tenebroso e sordido viene evocato dal (peraltro bellissimo) titolo. Tutto un magma-magna e uno spara-spara in cui confluiscono e sono sodali e collusi: 1) il suddetto Vaticano; 2) la politica della destra governativa; 3) la criminalità burina e feroce derivata dal neofascismo degli anni Settanta; 4) i piccoli boss (il capetto di Ostia) e gli zingari cravattari ansiosi di spartirsi la grande torta. Che nel film è una gigantesca operazione urbanistica tesa a metter su una simil Las Vegas sul litorale di Ostia. Ci mettono dentro i capitali parecchi clan e sottoclan criminali coordinati da un super padrino chiamato Samurai, un fascio passato dall’idea, dagli ideali e dalle lotte politiche degli anni Settanta al più pratico e redditizio affarismo. A renderla possibile ci penserà il corrotto deputato di riferimento del centrodestra tessendo la maggioranza necessaria a far passare in parlamento una legge ad hoc. Come no, c’è dentro l’eco precisa di Romanzo criminale con la sua ascesa nera dalle periferie al centro, ma qui siamo ancora di più al rispolvero di un modello narrativo più antico del nostro cinema, quello di film come Le mani sulla città, A ciascuno il suo, Cadaveri eccellenti, con i loro intrecci – in quei casi in Sicilia e a Napoli – di politica e mafia. Format narrativo che avrebbe dato vita al più illustre e fortunato esempio italiano di serialità televisiva, La piovra, qualcosa che ancora oggi si ricordano in tutte le parti del mondo, un perfetto e fascinoso affresco di malavita pari per efficacia mitopoietica al Padrino di Coppola e allo Scarface di De Palma. E la presenza nel film di Sollima di due sceneggiatori storici della Piovra come Rulli e Petraglia segnala che una qualche continuità c’è. Suburra frulla quelle suggestioni potenti a tutto il noir e crime nostro degli anni Duemila, da Gomorra (l’esecuzione nel centro estetico dei due bravi del ramo ostiense riprende la scena iniziale del film di Garrone) a ovviamente Romanzo criminale, e ambisce a essere il ritratto perfetto e definitivo di Roma cloaca massima di ogni nequizia contemporanea. Roma come nuova Palermo-Sagunto delle stragi. Va benissimo, basta non prendere Suburra come cronaca, piuttosto come una leggenda nera di straordinaria suggestione. Scusate, ma davvero le pressioni della malavita superorganizzata sui politici che ne rappresentano gli interessi in parlamento e magari pure al governo si svolgono nei modi che Sollima ci mostra? E vogliamo parlare delle minacce neanche tanto velate che il Samurai rivolge al cardinale maneggione, un “se non fai come dico io finisci in fondo al Tevere”? Mica nego collusioni e corruzioni, ma qui siamo al signora mia l’è tutto un merdaio, che è un’analisi politica quantomeno rozza, roba da conversazione pigra nelle sale d’attesa del dentista e degli aeroporti e delle stazioni. Lo schematismo ideologico, il manicheismo facile facile (un manicheismo dove il bene è flebile e il male dominante) erano anche il difetto genetico che indeboliva il precedente film di Sollima ACAB, nonostante anche lì ci fosse una regia straordinaria. Non bastasse, la narrazione in Suburra è scandita da un countdown che ci indica man mano i giorni che mancano all’apocalisse. Apocalisse che, scopriremo più tardi, coincide con la caduta il 12 novembre 2011 del governo Berlusconi cui il politico corrotto evidentemente (anche se non è detto esplicitamente) fa capo. E intanto si drammatizza ulteriormente il senso di fine del mondo incombente preannunciando l’intenzione del pontefice di dimettersi. Capisco che la caduta di un governo possa identificarsi con la fine di un sistema di potere, ma addirittura con il crollo dell’Italia anzi dell’universo mi pare un attimo esagerato. Per fortuna Sollima, almeno questa è l’impressione che ho avuto, prende la sceneggiatura come pura occasione per fare cinema, mica per riscrivere la storia recente di Roma e dell’Italia, abbandonando ogni pretesa di realismo e basso cronachismo. Così approfitta del plot per mettere in scena la sua visione apocalittica di una città lurida, fosca, perlopiù notturna, lordata dal fango, flagellata da una pioggia sporca che neanche Blade Runner. Una tela imbrattata di nero e sangue squarciata da lampi improvvisi e roghi che divampano qua e là (il fuoco nel buio era anche uno dei segni forti di ACAB). Davvero siamo all’inferno, in una sorta di rovesciamento della grande bellezza sorrentiniana dove le riprese a camera fissa di alcuni landmarks della monumentalità romana, da San Pietro a Piazza del popolo, costruiscono una mappa del disfacimento, una segnaletica dell’abiezione. Con pochi movimenti della mdp – l’eccezione è la lunga sequenza della sparatoria al centro commerciale – Stefano Sollima ci consegna un film quasi in forma di oratorio, ieratico e solenne, una cerimonia del male che si snoda ipnotica per poi accelerare di colpo nei massacri, negli sgozzamenti, nelle battaglie e nelle rese dei conti. Esemplare è la sequenza dell’incontro del Samurai nel fantasmagorico e lisergico Dubai Café (ma esiste veramente? se non esiste, complimenti allo scenografo) con l’antico camerata appena uscito di galera che adesso vuol sedersi al tavolo dell’abbuffata, e il successivo investimento sulla strada antistante. Talmente bello e potente, Suburra, nella sua messinscena, nelle sue accensioni visionarie, da farci dimenticare le troppe semplificazioni del plot, e anche farci venire un qualche sospetto di manierismo. Questo, che verrà celebrato da molta critica come film assai contenutistico di denuncia, è invece pura forma, il più stilisticamente consapevole e radicale che il cinema italiano ci abbia dato di recente, altro che Sorrentino. Se i caratteri non sono tutti così riusciti (il migliore è il Samurai di un formidabile Claudio Amendola che lavora tutto in sottrazione inventandosi un boss che ti fa paura solo a guardarlo, i meno risolti sono il politico di Favino e il piccolo faccendiere di Elio Germano), gli ambienti in cui i personaggi sono collocati e si muovono tolgono il fiato, per come sanno restituire e suggerire un mondo, uno stare al mondo, un’antropologia. Le case-palafitta di Ostia in cui vivono il piccolo boss Numero 8 (un Alessandro Borghi coattissimo e ultraboro reduce dal Non essere cattivo di Caligari) e la sua donna (Greta Scarano, character di tossica con una qualche parentela con la Barbara De Rossi della prima mitologica serie della Piovra). Soprattutto la corte zingara di opulenza plebea in cui comanda il feroce cravattaro Manfredi ansioso di azzannare la sua parte di torta della speculazione su Ostia, e non si può non pensare a Casamonica e allo sfrenato lusso straccione dei suoi funerali. Sollima sbanda solo nella goffa scena erotica del deputato con le due escort, con un Favino assai improbabile quale nudo e perverso simbolo della miseria morale della destra. Riprendendosi però subito dopo con la già famosa pisciata sotto la pioggia dell’onorevole dal balcone d’hotel su Piazza del popolo, sequenza che sarà ricordata a lungo e rischia di diventare il marchio del film. Al netto del suo ideologismo, Suburra è magnifico, lurido e buio, un’oscurità che è anche dell’anima e che ricorda nei momenti più alti L’infernale Quinlan di Orson Welles. Però l’ideologismo c’è, si fa sentire eccome limitando la grandezza del film, e non bastano a cancellarlo un profondo senso del cinema e una visione potente.


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