The Hateful Eight, un film di Quentin Tarantino. Con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Tim Roth, Jennifer Jason Leigh, Demian Bichir, Walton Goggins, Bruce Dern, Michael Madsen, Channing Tatum, James Parks. Musiche di Ennio Morricone.
Tre ore e passa in 70 mm per raccontarci otto dannati chiusi in un microcosmo infernale a sbranarsi, prima con le parole poi con le pistole e altro. Una summa del cinema di Tarantino con in bella vista tutte le sue ossessioni ormai elevate a maniera, a partire dalla violenza più truce. Ma l’impressione è che il signor Quentin si muova ormai in una dimensione autistica e autoriferita, schiavo di se stesso e del tarantinismo. E se i dialoghi sono una meraviglia, il plot ha fin troppe incongruenze (e non credete a chi ne parla come di un film politico, non lo è). Voto 6
Il meglio è la musica di Ennio Morricone. Se non avete altri motivi per andarci, e in questo film alquanto odioso come il suo titolo Tarantino fa parecchio per farsi malvolere e per respingere lo spettatore, andateci per lui, Morricone il grande. Che se poi The Hateful Eight lo vedete in uno dei quei pochi cinema dove lo proiettano in 70 mm UltraPanavision (a Milano bisogna fare una gita extra moenia fino all’Arcadia di Melzo) così come pensato e voluto dal feticista Tarantino – feticista del widescreen in pellicola come si faceva nei Sessanta e come non si fa più -, avrete in premio qualche minuto in più rispetto alla versione distribuita nella maggioranza delle sale. Soprattutto vi potrete godere un’Overture (no, non Ouverture come scriverebbe una persona dabbene: quei barbari di americani hanno tolto la u) che dà l’idea di chi sia il signor Morricone, del perché sia un venerato maestro, e di come a 87 anni sia sempre capace di meraviglie. Va bene, ma il film? Premesso che l’ho visto due volte, la prima in v.o. sottotitolata e la seconda doppiata, e tutte e due sul megaschermo dell’Arcadia di Melzo per un totale di oltre sette ore di visione e interminabili e fittissimi dialoghi (grazie maestro Morricone anche per aver interrotto qua e là la verbosità tarantiniana), dico che non è il meglio prodotto dal suo autore demiurgo, dal suo regista-dominus, il quale qui realizza la sua cosa più estrema, quasi una summa della propria visione di cinema, e però in un autismo allarmante, se non proprio patologico. Sfrenato, solipsista, autocitazionista, Tarantino entra definitivamente nella fase del manierismo, in una dimensione blindata e autoriferita, in un territorio in cui ogni elemento esterno e altro-da-sé è meticolosamente espunto. Una enorme stanza degli specchi in cui il già gigantesco Io dell’autore viene rifratto e moltiplicato all’infinito. Come il Fellini maturo, quello che parte dal Satyricon, si liquefà man mano nel fellinismo, anche Tarantino sprofonda definitivamente, voluttuosamente e senza avvertire da narciso i possibili rischi, nel tarantinismo. Come ha scritto un critico americano (perdonate, ma non ricordo chi) siamo a Tarantinolandia, e aggiungo io, siamo tutti prigionieri in quanto spettatori a Tarantinolandia, bloccati in un mondo soffocante che non è il nostro, e certo non perché The Hateful Eight sia concentrato perlopiù nel claustrofobico emporio di Minnie. Vien da urlare: usciamo, spalanchiamo porte e finestre (quella porta sbarrata con i chiodi del film sarà mica un’inconscia metafora?), facciamo entrare aria fresca che qua si respirano solo miasmi e cattivi odori. E verrebbe da aggiungere: liberate Tarantino da se stesso, tiratelo fuori dalla reclusione in cui si è cacciato. C’è tutto un mondo là fuori, perché quel gran genio – su questo non si discute – non va a esplorarlo?, perché non prova a raccontarcelo, perché non si rimette in gioco, perché non si misura con quella cosa chiamata realtà e se ne sta invece nella sua cuccia a rivedere e rifare compulsivamente, ossessivamente i film e filmacci che ha visto e adorato da giovane? Il suo cinema si nutre ormai solo di cinema, in una circolarità e autoreferenzialità che potranno anche commuoverci, cinefili come siamo, ma di cui non possiamo non avvertire la dimensione malata. Con in più qualche sospetto di automonumentalizzazione da parte del nostro allorquando, leggendo nei titoli di testa “questo è l’ottavo film di Quentin Tarantino”, e vedendo quell’8 disegnato intorno a due buchi di pallottola usato quale logo del film, si pensa a 8 e mezzo di Fellini, e viene il dubbio tremendo che Quentin gli si paragoni. Che poi è ben strano che per raccontarci una storia così claustrofobica – siamo quasi ai delitti nella camera chiusa di Poe, oltre che nella citatissima e non sempre a proposito Agatha Christie – il nostro (nonostante tutto) amato QT abbia scelto di girare nel 70 mm epico di Lawrence d’Arabia, un formato che si giustifica solo per le poche scene d’inizio open air con la diligenza che corre nella neve. Che spreco l’UltraPanavision per l’interno di una bettola, o forse è solo un’altra esibizione muscolare, un’ulteriore estrinsecazione della volontà di potenza dell’autore. Devo dire che alla seconda visione di The Hateful Eight ho sofferto meno, ho avvertito meno quella sensazione di intrappolamento nella bolla di Tarantinolandia che mi aveva sopraffatto alla prima, e però temo sia stata solo l’assuefazione, pura sindrome di Stoccolma, complicità della vittima con il carnefice che lo tiene prigioniero. Perché non c’è via di scampo, per noi come per i protagonisti del film. Sette uomini e una donna, e nessuno di loro perfetto anzi gravato da precedenti carognerie e misfatti e colpe, che si confrontano in un huis clos incongruamente e però efficacemente virato in salsa western. Due bounty hunter, una donna che sta per essere portata alla forca, un boia, un misterioso pistolero che sta scrivendo la propria vita, un sedicente sceriffo dal torbido passato, un generale sudista e assai razzista, e così via a completare il quadro di un’umanità lercia e perfino immonda. Non si salva nessuno, se non in parte, e solo in minima parte, i due bounty hunter e il giovane sceriffo, anche se definirli personaggi positivi sarebbe troppo. Qui son tutti bacati, fallati. Tutti intrappolati nell’emporio di Minnie sulla strada per Red Rock, nel Wyoming più selvaggio, per via di una tormenta di neve che li ha costretti a rintanarsi lì dentro. Dove presto comincia, dopo i debiti convenevoli, il gioco al massacro, ma quello vero, quello tarantiniano, con geyser di sangue che sgorgano scenografici come getti da fontane barocche però da corpi trapassati e maciullati, e vomiti eruttati, e materie cerebrali abbondamente spappolate e sparse, e arti amputati e trascinati in giro, e impiccagioni in diretta con gran godimento di chi vi assiste come a uno snuff movie. Si ha l’impressione assai sgradevole che stavolta Tarantino abbia tolto ogni freno e filtro, senza più quella distanziazione rispetto allo spettacolo della violenza e del sangue operata precedentemente attraverso un processo di stilizzazione. O attraverso la cifra del grottesco. Sì, si potrà obiettare (e si è obiettato) che anche gli elisabettiani signora mia ci andavano giù di brutto con la carneficina-show, che questo THE sta all’opera di QT come il truculento Tito Andronico sta al corpus shakespeariano, e però vien voglia lo stesso e al di là di tutti i giustificazionismi di dire basta a questa pornografia del massacro. Il progetto evidente è quello di scrutare da vicino – e di mostrarci in una sorta di esperimento di ingegneria umana – come un gruppo di persone, ognuna mossa da pulsioni non così confessabili, dall’avidità alla crudeltà alla vendetta, interagisca e dia vita a dinamiche distruttrici e mortali cavando fuori il proprio côté animale e cannibalico. Uomini-insetti che si muovono isterici pronti a divorarsi e distruggersi, e Tarantino a fare da osservatore e entomologo dopo averli immersi in un mattatoio o in un’arena in cui tutti sono in lotta contro tutti per la sopravvivenza, o anche solo per il gusto di sopraffare l’altro e costituirsi come maschio alfa del branco. Un teatro della crudeltà – del resto pare che The Hateful Eight sia nato come lettura scenica (un grazie a Sara che me l’ha detto) – comunque magnificamente orchestrato. I dialoghi sono al solito torniti, lustrati, tirati a lucido, con ampollosità e voluti anacronismi linguistici (quel “melasslike!”), lunghi ed estenuanti ma perfetti, a ulteriore conferma di come QT sia innnanzitutto e da sempre un sublime manipolatore del linguaggio e della parola. E le citazioni e i clin-d’oeil sono un’infinità. Dal teatro della minaccia di Harold Pinter al John Carpenter della Cosa all’Agatha Christie più claustrofobica, quella dei Dieci piccoli indiano ma soprattutto di Assassinio sull’Orient-Express: anche là un gruppo di sospetti intrappolati dalla neve e con un assassino o più assasini al lavoro. E quel che là faceva Poirot qui tenta di farlo, meno bene però, il bounty hunter Marquis (Samuel L. Jackson). Meno bene perché il plot non ha la perfezione abbagliante di quelli approntati dalla gran signora del mystery all’inglese, i buchi di sceneggiatura e di verosimiglianza sono tanti e vistosi, troppi, marcando irrimediabilmente, insieme all’autoreferenzialità, i limiti di The Hateful Eight. Non scendo in dettagli per non spoilerare (chi non ha paura degli spoiler vada a leggere sotto*), e però se Agatha Christie uno script così l’avesse avuto sottomano chissà quanti passaggi improbabili avrebbe sottolineato con la matita rossa. Se nei dialoghi la maestria è assoluta, Tarantino toppa clamorosamente nella costruzione narrativa e nelle sue logiche e coerenze interne. Confidando molto in sé e nella propria capacità di incantarci con la parola ci serve un racconto avvincente – no, nonostante le tre ore non ci si annoia, questo bisogna riconoscerglielo – e però assai difettoso. Dite che questo è il suo film più politico come han sostenuto parecchi? ma scusate, qualcuno crede davvero che a Tarantino interessi una qualsiasi forma di impegno? pensate davvero che tutto quel concitato contrasto e confronto tra neri lincolniani e liberazionisti e sporchi razzisti e schiavisti ex confederati sia da prendere sul serio come una lezione sull’America e i suoi peccati originali e le sue strutturali diseguaglianze? o che basti un blow-job tra maschi per ipotizzare un Tarantino schierato sul fronte dei diritti? L’ammiccamento politico in The Hateful Eight è solo uno degli elementi tra i tanti per meglio mettere in scena lo spettacolo del sangue, che è poi l’unica cosa che a Tarantino interessi.
* Le incongruenze sono tante. Ad esempio: è chiaro che Marquis realizza immediatmente che qualcosa all’emporio non funziona, che la versione fornita da Bob (“sostituisco Minnie che è andata dalla vecchia madre”) non sta in piedi, e allora perché aspetta tanto ad agire? E ancora: perché il fratello di Daisy Domergue (Channing Tatum per intenderci) lascia in vita il generale sudista mentre fa fuori tutti gli altri testimoni? E si potrebbe continuare.
Magazine Cinema
Recensione: THE HATEFUL EIGHT. Liberate Tarantino dal tarantinismo
Creato il 04 febbraio 2016 da LuigilocatelliI suoi ultimi articoli
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