L’avevamo atteso da molto con un pizzico di orgoglio e finalmente, dopo più di 2 anni di sviluppo e con informazioni più o meno latitanti, la prima opera dei toscani LKA.it: The Town of Light.
Per chi non avesse seguito le precedenti notizie, il titolo ruota attorno a una adolescente italiana di nome Renèe che, negli anni ’40, viene richiusa nell’ospedale psichiatrico di Volterra, struttura realmente esistita e in stato di abbandono a seguito della legge Basaglia del ’78 che, di fatto, ha chiuso i manicomi e ridefinito le pratiche mediche nei confronti delle persone affette da disturbi mentali.
In realtà il gioco vuole andare ben oltre dimostrando come in determinati contesti storici queste strutture erano riservate a persone “colpevoli” di atteggiamenti ambigui o vittime di un trauma che ne hanno stravolto la personalità. E’ il caso della stessa Renèe, giunta in ospedale non propriamente perchè malata di mente ma per vicende strettamente personali.
Il titolo di LKA si dimostra fin dalle prime battute molto maturo, crudele e impressionante a livello psicologico. Fondamentalmente abbiamo due tronconi: il primo riguarda strettamente il tormento personale della protagonista (ben caratterizzata grazie soprattutto all’ottimo lavoro della doppiatrice) e dall’altra tutto il contesto relativo all’ospedale e alle crudeli pratiche realmente esistite prima della legge Basaglia. Entrambi gli aspetti risultano ben sviluppati e capaci di catturare l’attenzione del giocatore/spettatore. Grande qualità insomma sia narrativa sia documentaristica.
Precisiamo, per coloro che davvero ne dovessero avere bisogno, che la natura di questo gioco è totalmente differente rispetto a titoli come Outlast sia come gameplay sia come temi trattati (in The Town of Light c’è indubbiamente una forma di “rispetto” e un grande alone di tristezza nei confronti dei pazienti, aspetti che permangono per tutto il gioco). Non ci sono nemici e, in linea con i recenti titoli del genere cosiddetto “walking simulator”, non è presente nessuna sfida in quanto è una avventura totalmente “story-driven” e dove l’unico scopo è assistere e guidare Renèe verso la fine del suo infernale percorso. Precisiamo inoltre che il maggiore tasso di violenza deriva dagli aspetti più psicologici che visivi (se cercate insomma splatter a valanga questo non è decisamente il gioco che fa per voi)
Sfruttando il motore Unity, The Town of Light riesce a presentarsi bene anche a livello tecnico (sempre considerando il fatto che si tratta di una produzione indie) e la resa degli ambienti, soprattutto il senso di abbandono e fatiscenza della struttura, è più che discreta. Non mancano indubbiamente imperfezioni ma direi che sono decisamente perdonabili. A livello audio, oltre ai già dovuti apprezzamenti per la doppiatrice, anche qui siamo ben oltre la sufficienza e la colonna sonora, a parte qualche componimento al pianoforte, è prettamente ambientale e ben si sposa con l’atmosfera malsana e corrotta dell’ospedale.
Forse avrebbe potuto essere un po’ più lungo: data anche l’assenza di enigmi e data anche la natura praticamente procedurale di The Town of Light, il gioco risulta terminabile in un tempo relativamente breve. Si guadagna più tempo esplorando e cercando i vari documenti disseminati ma questo non impedisce a The Town of Light di essere di fatto una avventura di scarsa durata. Un minimo di rigiocabilità è garantita grazie alla presenza di alcuni “bivi” narrativi ma che portano solo a sfumature diverse senza cambiare l’intera natura della trama. Se poi magari, ora o in futuro, disporrete di un hardware all’altezza potreste ricominciare l’avventura di Renèe utilizzando Oculus Rift.
Commenti finali
Un prodotto made in Italy al 100% (sia per i contenuti sia per chi lo ha sviluppato) che convince pienamente per maturità e sensibilità dei forti temi trattati. The Town of Light è questo: un gioco riservato per chi è alla costante ricerca di esperienze mature, fortemente narrative e dove il tasso di sfida è basso. Nella sua breve durata, riesce a catturare l’attenzione grazie a una protagonista disgraziata quanto basta e a una qualità artistica in generale davvero curata e che non ha niente da invidiare alle produzioni tripla A. A questo si aggiunge naturalmente un pizzico di orgoglio “italico”.