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Recensione – Tutti i colori del mondo, di Giovanni Montanaro

Creato il 27 giugno 2012 da Patriziabi (aspassotrailibri) @openars_libri

Tutti i colori del mondo, di Giovanni Montanaro – ed. Feltrinelli – 2012

Recensione – Tutti i colori del mondo, di Giovanni MontanaroTrama. 1881, Gheel, anche conosciuto come “il paese dei matti”. Teresa Senzasogni non è pazza, ma come tale è stata registrata per poter godere, come è uso in quel villaggio fiammingo, dell’ospitalità della famiglia Vanheim. Un giorno avrà una dote e sposerà il suo Icarus, che le racconta le ingiustizie del mondo. Ma poi arriva un nuovo ospite, un vagabondo rosso di capelli, schivo, rude, gli occhi accesi da una febbre sconosciuta, e Teresa sembra riconoscere in lui un destino incompiuto: diventerà un pittore – lei lo sa, lei lo sente –, troverà nei colori una strada universale.  Quando la “profezia” si avvera sono passati una decina d’anni e molto è accaduto, a Teresa e a Vincent van Gogh. Teresa scrive al caro signor Van Gogh perché si ricordi, perché la aiuti a mettere ordine nel disordine, speranza nella disperazione, amore nel disamore e colore nel grigio. Lui, in verità, è l’unico vero amore di tutta la sua vita. E come tutti gli amori è pieno di luce e di futuro.
Il romanzo di Giovanni Montanaro è una lunga lettera – dolcissima, appassionata, semplice. Che si trasforma in una storia di anime in gabbia, di sentimenti che vogliono lasciare il segno e di un bisogno di libertà grande quanto l’immaginazione che lo contiene.[Dalla terza di copertina]

Scrittore. Giovanni Montanaro (1983) è uno scrittore e avvocato veneziano. Ha scritto racconti e testi per il teatro, e ha pubblicato con Marsilio altri due romanzi. [Dalla seconda di copertina]

Osservazioni speciali di Patrizia – Giudizio 4/5
E’ il dilemma per eccellenza: il confine (esistente?) tra la ragione e la pazzia.
E’ un errore senza giustificazioni ridurre a questa dicotomia il romanzo di Giovanni Montanaro: certamente un grave errore di valutazione.
Altro errore di valutazione e di superficialità è pensare che il viaggio del lettore in Tutti i colori del mondo inizi a pagina 11, con quella frase già sentita, ma sempre piacevole alle orecchie di legge,  “Caro signor“, che evoca il gusto di uno scambio epistolare (inesistente, in quanto a scrivere è solo Teresa) e che ha il dono, prezioso per un lettore, di essere rassicurante e di prendere per mano: le lettere vestono la stessa intimità di due vite che si prendono per mano, un contatto dolce, delicato, che può, senza preavviso, diventare forte e possente.
Se poi la missiva ha come destinatario Van Gogh…
Questo romanzo intrigante per le esistenze che ci fa incontrare, disarmante per le credenze e le superstizioni, ritenute scienza, e la preveggenza che porta con sè, dirompente per la forza narrativa e per l’umanità che narra e per il tradimento che annuncia, ha il suo inizio tra le righe dell’epigrafe che, riportate anche a conclusione dell’opera, tracciano un cerchio perfetto, in cui l’elemento essenziale, dato dalla diversità delle ultime parole di ciascuna cinquina, racchiude le tappe di un viaggio che non ha termine, quello della mente, dei ricordi, delle sensazioni.

(epigrafe) Giallo, Giallo, non lo so
Se mai più ti rivedrò
Forse un giorno tornerò
Forse invece no

Forse invece no.

[...]

(epilogo) Giallo, Giallo non lo so
Se mai più ti rivedrò
Ma se non ritornerò
Non ti scorderò

Non ti scorderò.

Un lungo cammino tra i ricordi ed i pensieri, tra immagini mai sbiadite nonostante il trascorrere degli anni ed i colori ancora vividi e travolgenti, si dipana tra capitoli non numerati, come a voler lasciare andare la voce, libera di raccontare, e l’io dei personaggi libero di esprimere se stesso (un io da qualcuno incompreso e per ciò ritenuto pazzo) ed il lettore libero di vagare tra le vite dei protagonisti senza neanche il dominio, in capo ad ogni cambio di rotta, dei numeri che rigidi e freddi impongono la loro presenza.
Protagonisti di queste pagine senza padroni sono Teresa Senzasogni e Thierry Savel: le loro vite “si fondono”, nascono e rinascono in luoghi diversi, in anni diversi, in corpi diversi, in tempi diversi. Incompresi allo stesso modo, figli di un tempo che non gli appartiene ed in cui, nonostante coloro che li proteggono in realtà li stanno condannando, trovano ed affermano se stessi ed i propri colori nel mondo.
Ogni cosa è colore, ogni individuo è colore, ogni stato d’animo, emozione, sensazione, è colore, ogni respiro, sorriso, turbamento, speranza, sguardo, parola, suono, è colore ed in questo romanzo, in cui i toni sono miti ma decisi, l’assenza di un dolore urlato e marcato rende la sofferenza dei protagonisti greve ed intollerabile.
Teresa è figlia di Hélène Bruviére, monomaniaca imbecille, morta il giorno in cui l’ha data alla luce, nel vento, nella piccola cittadina di Gheel, in Belgio, che in germanico significa “Giallo”.
L’epoca e la mentalità è quella della seconda metà del 1800, quando nei certificati medici che diagnosticavano sintomi di pazzia si poteva leggere “dispiaceri domestici, ambizione delusa, eccesso di devozione, amore contrariato, afflizione, patimento“.
Teresa viene svezzata in canonica e, nella città dei pazzi, viene in seguito affidata alla famiglia più benestante del paese, i Vanheim.
Teresa fantastica di un amore con il minatore Icarus Broot, proprietario dell’unico velocipede di Gheel, lavora nella lavanderia dietro casa, assapora il profumo di buono e di pulito della sua vita e del suo futuro, salva da un’esplosione un gruppo di minatori e questo gesto segnerà la sua vita e la sua percezione del mondo.
Il segno indelebile tra le pieghe del suo presente Teresa lo scorge una sera, dietro il vetro di una finestra, sul quale le mani grandi e sporche di un uomo si sono appoggiate e per il tempo di qualche secondo hanno trovato ad accoglierle le mani di Teresa. Quelle mani sono di Vincent Van Gogh, sono dell’uomo (non ancora pittore) che è scomparso per sei mesi dalla sua vita “ordinaria” ed è apparso a Gheel, colui che non la tradisce, come fa chi invece pensa di proteggerla.
Questo contatto fugace, fisicamente inesistente, è il capolavoro di questo romanzo, è l’immagine in cui tutta l’opera si riassume, è la metafora che racchiude il rapporto mentale che lega i due protagonisti. Teresa e Vincent non si sfioreranno mai, l’autore non ci concede neanche uno scambio di sguardi, ma ciò che li lega, e che viene dalla stessa Teresa raccontato a Vincent dieci anni dopo il loro incontro, è l’àncora di salvezza di Teresa (“Abbiamo sempre parlato tanto, signor Van Gogh. Forse voi non avete parlato molto con me, ma io ho parlato molto con le vostre parole“). Il vetro di quella finestra è lo spazio che li separa ma che, trasparente, lascia percepire lo scorrere delle loro vite; è lo spessore sottile dell’apparenza che può tradire.
Montanaro ci regala i loro dialoghi, le parole che li fa conoscere ma ci si chiede spesso, durante la lettura, se i loro occhi si siano mai sfiorati, se abbiamo mai guardato nella stessa direzione.
Teresa “spia” Van Gogh, le sue lettere “[...] in cui c’era un grande fiume, impetuoso e inarrestabile; quando parlavate, invece, eravate un rivo secco, senz’acqua“, i suoi bozzetti, la sua prima tela, perduta, i suoi movimenti. Per lei quell’uomo insopportabile, che non sa ascoltare, che si sente a suo agio nella sera, che lei ha visto davvero felice una sola volta, quando lo ha osservato ridere mentre riprendeva l’equilibrio da una caduta sventata, quell’uomo è il suo mondo, colui che racchiude per lei tutti i colori del mondo. Quell’uomo che ritrova anni dopo a Saint-Rémy…
Un romanzo di ricerca e di documentazione per l’autore. Un libro che cattura, che schiaffeggia e che tormenta, ma che è in grado, quando meno te lo aspetti, di rasserenare l’animo, che non ha la presunzione di giudicare o sentenziare e che grazie al suo linguaggio, all’uso della prima persona, a quel “signor Van Gogh” sussurrato in segno di devozione, porta lo sguardo del lettore sulle tracce di colori spesso dimenticati.

Dal romanzo…

“Vi ricordate di Gheel, signor Van Gogh?
Il paese che si chiama come un colore, anche se nessuno sa perchè: il paese giallo. La capitale dei re e delle regine, dove ci sono più nobili che a Londra e a Parigi, si esce di casa con una scala per salire sulle stelle e si baratta l’oro con il pane, dove i bambini portano per mano gli uomini per insegnar loro le strade, le campane non suonano per non disturbare il sonno dei matti, Luigi XIV fa a pugni con un altro Luigi XIV.
E’ possibile dimenticare tutto questo?
Io ne ho il terrore.” (p. 39)

“Ma c’era altro, al di là delle parole.
Voi eravate qualcosa d’altro.
Una grande quercia, tutta nera, spessa, grossa, tracciata e ripassata con la matita, senza foglie, e una casa, dietro alla quercia, con la porta chiusa, storta, infilata dietro i rami spogli, il tetto un po’ tondo, curvo, che schizza verso il cielo come la punta di uno zoccolo. Poi una strada, dei ciottoli, un sentiero stretto che va verso una collina ma poi sparisce, tutto di sassi. E una figura, pallida, china, grigia-azzurra, di spalle, vestita da uomo, con un cappello calcato sulle orecchie, che cammina e si capisce che va piano. Sono certa che non ha fretta. Forse è il movimento della gamba, appena accennato; è un passo breve.
Era l’ultima cosa che si notava, talmente piccola, sovrastata dal resto.
Eravate voi?
No, non intendo l’uomo che cammina, ma anche quella quercia spoglia, anche quella casa abbandonata, anche quella strada senza direzione.” (p. 68)

“Mi hanno salvato i colori.” (p. 103)

Giovanni Montanaro
Tutti i colori del mondo
ed. Feltrinelli
Anno 2012, pp. 144
ISBN 9788807018886


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