È arrivato il momento di recensire un altro libro del progetto: oggi è il turno di Una vita da precario.
Titolo: Una vita da precario
Autore: Enzo Aita ~ Solitario
Genere: racconti autobiografici
Editore: Photocity
Pagine: 195
Anno di pubblicazione: 2011
ISBN: 9788865811672
Prezzo: €10,00
Formato: brossura
Valutazione:
Grazie all’autore per avermelo inviato in formato eBook.
Una vita da precario è il primo di 20 racconti di vita vissuta di un testardo che, pur di non lasciare la sua amata Napoli, si è inventato mille lavori.
Da impiegato in nero a direttore di filiale, da imprenditore a pistolero di periferia, da contadino ad allevatore di capre; comprando e vendendo di tutto tranne la sua anima… E sempre all’inseguimento di una stabilità mai raggiunta.
La sua unica arma, l’ironia; il suo rifugio, il mare.
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Nonostante in genere non ami leggere autobiografie – non tanto perché non le trovi interessanti, quando perché riesco assai di rado ad appassionarmi alle vicende personali di qualcuno che non conosco -, questa volta è stato molto diverso, e perciò ringrazio di cuore Enzo Aita, che tramite il progetto mi ha dato la possibilità di leggere una serie di racconti di vita davvero niente male.
Spizzicando tra le recensioni già presenti nel web, mi sono trovata d’accordo in particolare con una che affermava questo: forse, soffermandosi solo sui primi capitoli del libro, l’impressione che se ne può trarre è che un titolo come “Una vita da sfigato” avrebbe reso meglio l’idea, piuttosto che “Una vita da precario”. Ma leggendo con più attenzione e con un occhio meno superficiale, ben presto diventa chiaro che non è così: in alcuni punti sembra davvero che la dea bendata ce l’abbia con il nostro protagonista, tanto che a volte non è facile non pensare “Ma se le va a cercare o cosa?”, ma a mano a mano che si impara a conoscerlo meglio, si capisce che, in realtà, quella che può apparire sfortuna è solo la conseguenza di un inesauribile ottimismo.
Mi spiego: per tutta la vita deve fare i conti con un’apparente incapacità di rimanere nello stesso luogo, di conservare un posto di lavoro e di coltivare le stesse passioni; il desiderio che quasi lo perseguita, dunque, è quello del cambiamento, della novità. Naturalmente questo provocherà nella sua vita una serie di alti e bassi che sembra destinata a non finire mai – fino ad arrivare al brillante epilogo, in cui dopo tanto vagare l’autore si gode in santa pace la sua pensione -, a differenza, appunto, del suo ottimismo: anche quando le cose vanno male, non solo non si dispera, ma si mette subito alla ricerca di un nuovo percorso da imboccare, in modo da poter ricominciare subito con una nuova avventura.
L’aspetto senz’altro più bello e divertente, però, è che anche quando la “sfiga” non sembra volergli dare tregua, il protagonista sfodera la sua arma segreta che niente e nessuno potrà mai sconfiggere: l’autoironia. Probabilmente, qualsiasi altra persona nelle sue stesse condizioni avrebbe imprecato contro la sfortuna e si sarebbe disperato, mentre lui, dopo magari un piccolo attimo di sconforto, si concede una risata e poi continua per la sua strada. Di sicuro coloro che sono in grado di riderci sempre su, quando la vita gioca brutti scherzi, non sono molti; quelli che sanno farlo in modo così brillante, probabilmente sono ancora meno. Ed è proprio questo che mi è piaciuto di più di Una vita da precario: questa insaziabile ondata di ottimismo che sembra permeare le pagine è stata così forte da mettermi il buon umore durante tutta la lettura, e da lasciarmi alla fine con il sorriso sulle labbra e con la sensazione che avrei fatto fatica a dimenticarmene.
Forse l’unico punto che non mi ha lasciata soddisfatta è stato il come questa storia di vita è stata raccontata: ho trovato lo stile un po’ povero, a tratti scarno, e alcune asperità (come le frequenti ripetizioni) non mi hanno permesso di gustarlo a dovere. Inoltre, specialmente nella parte iniziale, quando il protagonista racconta i suoi primi mestieri, è stato un poco noioso e non molto coinvolgente.
A mio giudizio, però, il vero punto forte del libro non è l’autobiografia – che è stata piacevole e simpatica da leggere, ma che in alcuni punti ho trovato un po’ pesante -, bensì i racconti che la seguono e che occupano la seconda parte del volume. È dopo aver letto questi che posso dire che, sempre ovviamente secondo me, l’autore se la cava meglio con le storie brevi anziché con quelle lunghe: si tratta di aneddoti che occupano in media una decina di pagine ciascuno e non sono legati da un unico filo, come invece accade per i capitoli della biografia, ma spaziano da racconti di mare e di viaggi in barca (grandi passioni dell’autore) a episodi di vita napoletana, e altro ancora. La mia netta preferenza per questi ultimi è dovuta al fatto che la loro brevità li renda praticamente a prova di noia: brillanti, intensi, ma soprattutto spassosissimi, specialmente quello che si intitola “Ma voi?”.
Sebbene siano (con qualche eccezione, presumo) tutti reali, o comunque abbiano un fondo di verità, li ho trovati talmente ben descritti da sembrare parte di un romanzo – e questo è un complimento, anche se di solito vengono considerati migliori quei romanzi che sono talmente realistici da sembrare veri. Ancora meglio, sanno trasmettere il sapore di una città, una voglia contagiosa di libertà e in modo particolare, come del resto anche la biografia, un ottimismo inesauribile.
Permettetemi, infine, una piccola critica all’aspetto estetico del libro: ho come l’impressione che, se mi ci fossi messa io, che in disegno grafico sono una frana, a voler creare una copertina con Paint, ci avrei messo due minuti a disegnarne una meno scialba…
Per il resto, però, vi consiglio di farci un pensierino, se volete anche voi trascorrere qualche ora piacevole in compagnia di un libro che sprizza ottimismo e ironia da tutti i pori. Purtroppo c’era ancora un ottimo potenziale che, secondo me, non è stato sfruttato a dovere, ma il passo che gli occorre fare per superare questo gradino è molto breve.
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Non sono mai stato uno studente brillante. Superai le scuole medie senza aprire un libro, solo seguendo le lezioni in classe. Il mio tempo lo dedicavo a sognare ad occhi aperti ed a leggere fumetti per notti intere: l’Uomo mascherato, Mandrake, Dik Fulmine, erano i miei eroi. Poi scoprii “I tre moschettieri”, “Vent’anni dopo” ed “Il Conte di Montecristo”. Dopo la licenza media mia madre mi disse che il proseguimento dei miei studi sarebbe stata una scelta obbligata: mio padre, col suo stipendio di impiegato in una ditta privata, non ce la faceva a mandare avanti la famiglia, non sarebbe stato possibile mantenermi molto a lungo agli studi: era indispensabile che mi mettessi al più presto in grado di dare una mano. Il liceo e la successiva indispensabile università non erano alla nostra portata. Dovevo iscrivermi a ragioneria, in modo che, dopo cinque anni, sarei stato in grado di trovare un impiego e contribuire alle spese della famiglia. I primi anni a ragioneria furono un vero disastro: le materie non mi interessavano, odiavo l’idea di fare il ragioniere e, oltretutto, non era più sufficiente seguire le lezioni in classe. Avrei dovuto studiare. Passavo ore alla scrivania leggendo pagine e pagine con la mente altrove, col risultato di perdere tempo e non imparare niente. In seconda ragioneria fui respinto ed avrei dovuto ripetere l’anno. In famiglia fu una vera tragedia: si allontanava il tempo in cui avrei portato un po’ di soldi. Fu allora che, non reggendo alla tensione, scappai di casa.
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