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Titolo: Venuto al mondo Autrice: Margaret Mazzantini Editore: Mondadori Numero di pagine: 530 Prezzo: € 14,00 Sinossi: Una mattina Gemma sale su un aereo, trascinandosi dietro un figlio di oggi, Pietro, un ragazzo di sedici anni. Destinazione Sarajevo, città-confine tra Occidente e Oriente, ferita da un passato ancora vicino. Ad attenderla all'aeroporto, Gojko, poeta bosniaco, amico, fratello, amore mancato, che ai tempi festosi delle Olimpiadi invernali del 1984 traghettò Gemma verso l'amore della sua vita, Diego, il fotografo di pozzanghere. Il romanzo racconta la storia di questo amore, una storia di ragazzi farneticanti che si rincontrano oggi invecchiati in un dopoguerra recente. Una storia d'amore appassionata, imperfetta come gli amori veri. Ma anche la storia di una maternità cercata, negata, risarcita. Il cammino misterioso di una nascita che fa piazza pulita della scienza, della biologia, e si addentra nella placenta preistorica di una guerra che mentre uccide procrea. L'avventura di Gemma e Diego è anche la storia di tutti noi, perché questo è un romanzo contemporaneo. Di pace e di guerra. La pace è l'aridità fumosa di un Occidente flaccido di egoismi, perso nella salamoia del benessere. La guerra è quella di una donna che ingaggia contro la natura una battaglia estrema e oltraggiosa. L'assedio di Sarajevo diventa l'assedio di ogni personaggio di questa vicenda di non eroi scaraventati dalla storia in un destino che sembra in attesa di loro come un tiratore scelto. Un romanzo-mondo, di forte impegno etico, spiazzante come un thriller, emblematico come una parabola.
La recensione
"Un giorno sono passato accanto a un prato rosso di papaveri e per la prima volta non ho pensato al sangue, mi sono incantato su quella bellezza così fragile. Bastava molto meno di un'ascia, di maljutka, bastava un colpo di vento. Era fermo lì per noi, quel prato, in attesa dietro quella curva. Un immenso campo punteggiato di lingue rosse, come cuori caduti dal cielo nell'erba. Ero in macchina con mia moglie. Ci siamo fermati e abbiamo cominciato a piangere. Prima io, poi, dopo un po', anche lei mi è venuta dietro come un torrente. E' stato un pianto che lentamente ci ha svuotati, ci ha risarciti. E da quella sera abbiamo ricominciato a respirare con il petto. Riuscivamo a sopportarlo. Per anni il nostro respiro è stato fermo alla gola, non poteva andare oltre... Due mesi dopo mia moglie era incinta." Brividi. Brividi ovunque. Brividi dappertutto. Nelle ossa. Tra i denti. Sulla pelle, sotto la pelle. Brividi anche nei capelli, come pidocchi. Brividi come perle. La puntina salta, il vinile s'inceppa, il giradischi muore. Va via la voce di Gemma, torna il presente. Torno al presente. Si ci alza in una stanza che non ha pareti, come in una canzone vecchia e bellissima di Gino Paoli. Si cerca la forza aggrappati alla tastiera del letto, alle coperte azzurre. Il letto ha un'anima di legno e non è vero che il legno galleggia. Io sono di legno, e io non galleggio. Vado a fondo, mentre i muri diventano mare e la mia stanza una placenta. Intorno, pesci che nuotano.
Non nell'oceano, non nel fiume: nel golfo calmo del liquido amniotico. Verrebbe istintivo rannicchiarsi lì, tra il letto e il mare, come virgole sghembe disegnate da un bambino che, per gioco, ha provato a scrivere un pensierino con la mano sinistra, l'altra: la mamma stira, io leggo. Le gambe tirate al petto, le braccia che riconosco le ginocchia come loro fratelli e le cingono, e le abbracciano, e non le mollano più. Si diventa, così, segni di punteggiatura imperfetti. Feti perfetti. Invece non c'è compostezza, non c'è grazia, non c'è parola che basti a rimetterti al mondo. Lo strazio è una bolla di lacrime concentrata tra fronte e naso, una ruga sulla fronte che prima non c'era. Il dolore pulsa lì, ma non esce: non scorre giù dagli occhi. Ho chiuso il mio libro e ho nuotato fino al bagno, strusciando i piedi sulle mattonelle e su quel familiare fondale di ceramica a rombi.
Mi sono seduto sulla tavoletta del water perfettamente chiusa e ho aspettato l'infinito, guardandomi i piedi scalzi, pensando. Credo che fosse il primo liceo e credo che fosse Ariosto: ricordo con certezza di non ricordare bene. Si parlava di struggimenti d'amore, nobili contese, affronti e galantuomini pazzi incapaci di piangere: erano tanto forti i sentimenti provati dal protagonista da non riuscire a trovare una via di fuga tra lo sterno stretto, la cotta di maglia opprimente, la faretra pesante. Orlando – se di Orlando si trattava – non riusciva a imporre una graduatoria ai suoi dolori: a dare il primo posto al tradimento, il secondo alla disfatta, il terzo all'orgoglio ferito. Perciò duellavano, facevano invano a gara per emergere, si annullavano senza saperlo. Dopo una storia come Venuto al mondo ti senti un po' così: dilaniato, esaurito, emotivamente costipato. Senti di non sapere a quale sentimento dare la precedenza, ma sai che qualsiasi emozione arriverà prima – che si tratti di compassione o amore, sofferenza o vergogna non importa più – ti farà male, ti trancerà le gambe, come un pirata della strada con un cieco in mezzo al traffico. E non parlo di cuori spezzati, singhiozzi affranti, trascurabili fitte. Leggi Venuto al mondo e pensi che un calcio nelle palle t'avrebbe fatto meno male. L'autrice colpisce dove sa strapparti un urlo, una bestemmia, il fiato. Al centro della mascolinità, nel primordiale segreto del divenire padre. Fa un male cane e, se sei uomo, ti toglie la virilità. Anestetizza la tua identità, nega il cromosoma sbagliato che ti rende quello che sei. Ti fa sentire donna, ti fa sentire mamma. Io e Margaret Mazzantini avevamo una questione in sospeso chiamata Non ti muovere: quella bella signora dagli occhi blu, infatti, d'impatto, non mi era stata simpatica. Ero il lettore imperfetto io, ed ero in quell'età sospesa e ingenua in cui i pensieri più brutti e vili di un uomo mi sembravano alieni. Io che, ancora piccolo, conoscevo giusto quelli del mio papà. L'ho riletta adesso – con il diploma del liceo appeso al muro, la patente nel portafoglio e una certa maturità aggiunta – e abbiamo fatto la pace e la guerra, sotto il fuoco incrociato delle sue parole d'acciaio arrugginito. Io ero Pietro. Io ero suo figlio. La sua prosa, un grembo materno: buio, misterioso, avvolgente, grande, caldo. Una casa che resiste, con il ritratto di Tito al muro e pentole in cui nuotano pesci rossi scacciati dal loro acquario frantumato, ai bombardamenti. Margaret ha uno stile corposo, purulento, meravigliosamente ricco, che si spezza ora in una poesia dai versi sciolti, ora in una lettera improvvisata, ora in una pagina di un diario d'ossessione.
Ha il naso per percepire l'odore intenso delle spezie e della carne arrosto e un fetore acre che sa di formiche bruciate; ha la bocca per baciare, urlare contro un Dio che forse è morto, dire una verità scomoda; soprattutto, ha gli occhi, occhi che immortalano quello che non dimenticherai mai. Cose brutte e cose belle in un rullino fotografico lasciato alla polvere. La Mazzantini vive d'amore e di guerra e va in cerca di vita, in mezzo a quella morte inspiegabile che gela il sangue. Oscilla, affascinante, su un'altalena librata sugli opposti: a tempi alterni, la testa rivolta verso il confine della fine e i piedi verso il tunnel di una nuova nascita. Spia i movimenti di vittime innocenti dal mirino del fucile di un cecchino; qualche volta fa fuoco, qualche volta è clemente e ti salva la vita. Costruisce il passato di una famiglia mancata attraverso ecografie piene di ovuli ciechi e figli che, forse, non dovevano venire. La superba storia d'amore tra tre destini e una città maledetta dalle stelle. Sarajevo ha il nome di un tango. Sarajevo – schifosa, suggestiva, unica - è gelosia e passione, morte e vita. Sarajevo, che potrebbe essere il nome di un transessuale triste con il trucco sciolto e l'attesa di un cambiamento “contronatura”. Tutte le strade, nell'arco di trent'anni, portano e riportano Gemma, Diego e Gojko lì, dove la guerra e una Madonna punk hanno generato Pietro – estroverso, moderno, ruvido, un'adolescenza pronta a sbocciare.
A Pietro, Margaret ha dato i tratti e gli occhi del maggiore dei suoi quattro figli: ha scritto tanti libri, ha avuto tanti parti, lei. Ha messo al mondo quattro volte la vita perché lei ne è perdutamente innamorata, in fondo. Lo si percepisce da quello che fa, nella cura impressionante che deve richiedere: penso a una mamma che, di domenica, nel suo unico giorno di riposo, mette la sveglia alle sei per mettere la bolognese sul fuoco, preparare le lasagne fatte in casa, far odorare la casa di buono. Lei, che sa cosa significa crescere quattro figli sani e forti, sa anche cosa avrebbe significato non averne: sa descrivere il vuoto cosmico che Gemma sente nella pancia con passaggi fortissimi e pieni di verità. La protagonista è complicata, come tutte le donne; anche di più. Gemma si sente una donna a metà, ma è sfuggente il doppio, il triplo, il quadruplo. Il suo desiderio di diventare madre diventa ossessione, odio verso eserciti di donne con i jeans premaman che affollano le strade, gli uffici, i bar. Tutte insieme. Quasi a voler sventolare le loro forme, morbide come il pane, e i loro ventri accoglienti davanti a una Gemma fredda, triste, spezzata, inutilizzabile. Le donne della Mazzantini sono fortissime, mentre gli uomini sono troppo buoni e troppo stupidi, leggeri come quei mazzi di fiori di carta venduti quando le rose hanno preso lentamente a morire. Diego ha la testa tra le nuvole, il cappello da Puffo, i pantaloni a sigaretta colorati, un sorriso enorme e storto sul volto piccolissimo, una macchina fotografica – al collo – che è la croce che si porta appresso. Per fotografare neonati nelle cassette della frutta, nuche e ombelichi di donna, pozzanghere. Gojko, invece, ama due donne – la mamma, che somiglia a Lady D, e la sorellina, che vuole andare, da grande, alle Olimpiadi – e le corteggia tutte quante: beve, fuma, compone sinfonie a suon di rutti, scrive poesie dedicate a Sarajevo e ai grazie, gioca a calcio con la testa mozzata di un nemico per vendetta, sporcandosi i jeans buoni di sangue. Margaret Mazzantini rievoca, tra le sue pagine, un conflitto vicinissimo, nel tempo e nello spazio, di cui, se solo volessimo, potremmo ancora sentir risuonare gli echi, al di là del mare. Ma la domanda è una: vogliamo? La risposta mi sfugge, come mi è sfuggita, per troppo tempo, la reale identità di questo secondo olocausto. I programmi di storia, a scuola, parlano sempre di bambini col pigiama a righe, mai di Pietro, mai di Sebina, mai del bambino blu scorto da Gemma sul tavolo dell'obitorio, accanto al cadavere rattrappito di un povero vecchio morto insieme alla sua povera dignità. Un'amica, Elisa, mi ha detto che siamo tutti responsabili dei drammi che accadono nel mondo, siamo tutti complici. E siamo tutti Diego, anche se nessuno lo ammette. Perché lui è cordardo, mentre tutti – fregati da un'inconsistente presunzione – si credono eroi. La verità è che tutti avrebbero scelto la sicurezza dello stanzino delle scope, interrogandosi a lungo su cosa sarebbe successo se avessero fatto altrimenti. Non si sarebbe risolto niente, si sarebbe risolto tutto. Crudo, scomodo, atroce, capolavoro. Grandi personaggi, gran libro, brutta storia. Un libro da leggere a voce alta, un libro che ti sbudella il cuore. La Mazzantini come una paladina della memoria, Margaret come una regina della narrativa. “E' stato più facile prima correre sotto le granate che dopo passeggiare sulle macerie.” Il mio voto: ★★★★★ Il mio consiglio musicale: Fontana di Sarajevo – Eduardo Cruz
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