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Recensione: WHIPLASH. Questo sì che è un film S/M, altro che le sfumature

Creato il 20 febbraio 2015 da Luigilocatelli

hr_Whiplash_1hr_Whiplash_6Whiplash (Colpo di frusta), un film di Damien Chazelle. Con Miles Teller, J.K. Simmons, Melissa Benoist, Austin Stowell.
hr_Whiplash_3Già bi-vincitore al Sundance, Whiplash è il travolgente racconto dello scontro tra un giovane batterista jazz, Andrew, e il suo sadico direttore d’orchestra-istruttore. Come il sergentaccio di Full Metal Jacket e le sue reclute, solo in versione musicale. Ritmo travolgente, twist continui, e uno scontro tra generazioni che infiamma le platee. Voto 7+
hr_Whiplash_5È il film che lo scorso maggio più è piaciuto a Cannes ai ventenni, benché non sia stato presentato al festival maximo, ma alla parallela Quinzaine des Réalisateurs. Ecco adesso Whiplash nei cinema italiani, giusto per intercettare l’onda-Oscar, per cui ha avuto un bel po’ di nomination di peso, comprese quelle per il miglior film e il miglior attore non protagonista (J.K. Simmons, che l’Oscar lo vincerà). Film trascinante e, oltre che ben diretto e benissimo recitato, pure perfettamente scritto, il che, vista l’età del suo autore Damien Chazelle (29 anni), è una notizia vera. Però avrei qualche riserva sulla statura assoluta di Whiplash, il cui limite sta in un eccesso di cliché e soprattutto in un finale non all’altezza, che banalizza e piacionizza e paraculizza, e finisce con il disinnescare, la sana carica esplosiva e contundente di quel che avevamo visto fino a quel momento.
L’asse narrativo è costituito dalla tenzone-duello-scontro-confronto tra un batterista jazz studente di conservatorio e il suo maestro-istruttore, direttore dell’ensemble che raccoglie il meglio della scuola, anzi, a suo dire, i massimi talenti giovani del paese. Fate conto l’istruttore carogna di Full Metal Jacket (o di Ufficiale e gentiluomo), con tanto di testa debitamente rasata a comunicarci ferocia e implacabile mascolinità, e i suoi soldatini in addestramento, però in versione scuola jazz. Ecco, siamo a Whiplash. Il drummer è Andrew, il suo mentore, ma anche antagonista e uomo-da-odiare, è Fletcher. Il quale lo recluta non appena lo sente suonare, solo che per il ragazzo non sarà l’inizio di un luminoso percorso senza inciampi verso la gloria, ma di un rollercoaster di incitamenti e violente frustrazioni e umiliazioni da parte del maestro, di entusiasmi e di crisi abissali. Soprattutto le ultime. Il carognissimo Fletcher è della vecchia scuola, oggi spazzata via dalla political correctness, per cui solo chi soffre e si sacrifica raggiunge l’ecellenza, e all’arte bisogna dedicarsi in toto; ai suoi pupilli-schiavi ricorda ogni due per tre la storia di Charlie Parker il quale, dopo una mediocre performance, si vide arrivare in testa un tamburo scagliatogli dietro dal capo della band e da allora si ritirò a provare e riprovare e riprovare ancora finché ne uscì il Charlie Parker che sappiamo. A Andrew e agli altri il roccioso Fletcher non risparmia niente. Li sottopone alle più dure prove di resistenza, li licenzia e li riassume capricciosamente, li mette in competizione selvaggia. Insulti razzisti e sessiti (cocksucker! faggot!), umiliazioni, ingiurie, aggressioni verbali che tirano in ballo gli affetti (“vuoi diventare un fallito come tuo padre?”), in un colpo-su-colpo straordinariamente ben orchestrato dal talentuosissimo Chazelle. Per essere all’altezza da quanto richiesto dal suo sadico direttore, Andrew si sottopone ai più penosi ed estenuanti esercizi, sacrifica la sua vita privata – una ragazza troppo tenera cui a un certo punto rinuncia – , si lacera le mani a sangue. Ma per Fletcher non sembra bastare mai, e in Andrew cresce la rabbia, l’odio verso quel capo eternamente scontento (“Sapete quali sono le due peggiori parole finali in inglese?”, urla l’ossesso, “Good Job!”). Ritmo sostenuto, anzi convulso. Chazelle non ci risparmia niente, trasformando il duello tra i protagonisti in uno scontro mortale. Con il povero Andrew che si sacrifica perfino fisicamente sull’altare dell’arte, a ricordarci certi scorticamenti e lacerazioni corporee di film come Toro scatenato o, più recentemente, Blak Swan (con cui ha molte affinità, anche se non ne ha il surplus visionario). Seguono twist su twist, e ribaltoni e capovolgimenti, di una storia che ci avvince e convince, con i due che a un certo punto si perdono e poi si ritrovano. Fino alla parte finale abbastanza deludente viste le premesse. Colpiscono parecchi elementi per così dire extrafilmici in Whiplash. Il primo, il più clamoroso, è che ripropone, pur nella massima ambivalenza e senza prendere mai partito, l’etica del sacrificio, del ragazzo-mio-per-riuscire-devi-soffrire, in totale antitesi alla sottocultura oggi dilagante della celebrità facile tramite reality e talent. E il fatto che un film così, letteralmente di lacrime e sangue, abbia entusiasmato a Cannes soprattutto i più giovani è una consolazione, vuol dire che non tutto è ancora perduto nel gran pozzo narcistico in cui siam precipitati. Il secondo elemento rimarchevole è che Whiplash riesce a metaforizzare come pochi altri film recenti lo scontro inaudito in corso in occidente tra le generazioni, quella dei baby boomer che molto hanno avuto e oggi sono arrivati satolli a un’età tra 50 e 60, e quella dei venti e anche trentenni esclusi dalla torta. Fletcher riassume in sé tutti gli adulti, Andrew tutti i ragazzi che devono odiarli e distruggerli e rottamarli per potersi fare largo nel mondo. Che poi, a ben guardare, tutto questo è, anche, il vecchio, caro scontro edipico tra padre e figlio, e dunque siamo ai grandi, eterni, immarcescibili archetipi. Sta qui, credo, sta in questi sottotesti però alquanto trasparenti, una delle ragioni che hanno trasformato Whiplash in un grande successo di nicchia, se così si può dire, e in candidato forte della awards season. Buonissimo film, con il difetto di essere qua e là troppo furbo, troppo consapevole di come si costruisce e manovra una macchina narrativa per conquistare il pubblico. Dei due interpreti, Miles Teller (il drummer) e J.K. Simmons, sentiremo molto parlare, soprattutto del secondo, candidato e favorito all’Oscar.


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