Solo che lo sguardo fugace che ti fa innamorare di un regista non lo ricerchi nei suoi occhi, come per la ragazza, ma in un'immagine, in un'inquadratura. Questi sono gli occhi del regista.
E così circa 4 mesi fa mi capita sotto l'occhio questa immagine:
ed è amore a prima vista. Quest'uomo bianco come la morte che guarda negli occhi un piccione appollaiato in un ramo, questo strano museo di scienze naturali, questa freddezza ambientale e situazionale eppure con una fortissima vitalità intellettiva dentro.
Il film vince Venezia ma a me non interessa. A me interessa sapere di chi sono quegli occhi e li scopro essere di un regista svedese di 70 anni di cui non avevo mai sentito parlare, Roy Andersson.
Che, a parte 1/2 lavoretti giovanili, nella sua carriera ha fatto solo 3 film, uno ogni 7 anni (2000, 2007, 2014). Non voglio sapere altro, aspetterò il momento giusto per vedere se quegli occhi che per un istante mi hanno saputo così stregare riusciranno a fare lo stesso se proverò a guardarli a lungo. Come quell'uomo e quel piccione.
L'occasione, quasi fortuita, arriva ieri.
Controllavo di nuovo la lista di MyMovies, quella che servirà poi al progetto streaming del blog e per sbaglio, ma veramente per sbaglio, leggo il nome di Andersson sotto la locandina di un film.
Non resisto un attimo.
Ed è stato fantastico accorgersi dopo due sole inquadrature che quegli occhi di cui ti eri innamorato sono proprio quelli che avevi visto in quel'istante, non era un gioco di luce strano o un tuo momento particolarmente debole quando accadde.
Andersson, l'ho capito dopo 20 secondi, è uno di quei registi che sa meglio raccontare la mia visione del mondo.
Un mondo che racconta di un'umanità eternamente depressa, malinconica, rassegnata, insoddisfatta.
Ma, ed è qui che io e il regista svedere facciamo veramente scopa, tutta questa insoddisfazione, questa malinconia e questa rassegnazione sono viste con un occho grottesco, divertito, brillante e, se lo analizziamo bene, nemmeno privo di speranza.
You, The Living è un film-non film quasi privo di struttura, costruito su scenette quasi autonome, su personaggi che a piacimento tornano o no, su legami tra gli stessi personaggi assolutamente sfuggenti.
E per rendere al meglio questo modo di raccontare Andersson usa quasi sempre inquadrature fisse, quasi sempre interni, quasi sempre fredde e statiche scene dove mettere in mostra il suo bestiario umano.
Non c'è una storia generale, non c'è nemmeno una storia singola portata a compimento, soltanto un album di vite disilluse. L'insoddisfazione è il tema principale, nessun personaggio è contento o soddisfatto della sua condizione. Non lo è la grassa signora che nessuno capisce, non lo è lo psichiatra, non lo è il signore che porta i fiori alla grassa signora, non lo è nessuno.
Tutto è freddo, anche le stesse stanze e il tempo, con quel temporale che imperversa, sembrano fare pendant con le esistenze raccontate. Non c'è mai un colore e quando c'è, probabilmente solo una volta, nella scena delle stoffe, è un colore che non si può vendere, perchè ne è stato tagliato un pezzo.
Non ci può essere colore in You, the Living.
Andersson sa che per raccontare il grottesco molte volte c'è bisogno anche del brutto.
E così il film è un campionario di persone brutte (ma non necessariamente brutte persone), inappetibili, indesiderabili, dalla carnagione chiarissima e dai tratti somatici tutt'altro che gradevoli (a parte la coppia di giovani).
Ho trovato richiami ai Monty Python, in questo umorismo nero ma brillantissimo, in questo tentativo divertito ma al tempo stesso malinconico e surreale di trovare un senso della vita.
Ma c'ho trovato qualcosa anche del miglior Fantozzi nostrano, in queste grigie esistenze, in queste vite insoddisfatte, in qualche gag che, a differenza di quelle di Ugo, tutte incentrate sul ritmo e sull'esasperazione, qua invece hanno il passo lentissimo della noia e della routine.
Noia e routine che sono perfettamente visibili in quel bar in cui nessuno fa nulla se non aspettare l'ultima ordinazione. L'ultima prima di chiudere, perchè domani comunque è un altro giorno dice il barista.
Andersson ha un senso dell'inquadratura pazzesco. La scena dell'uomo alla finestra con sullo sfondo le altre due finestre della casa dove eravamo poco prima, con sopra il suonatore di trombone e sotto quello che non sopporta sentirlo suonare, è strepitosa. Tra l'altro la musica, sempre diegetica, è quasi personaggio a sè, colonna sonora onnipresente, anche fisicamente, con quei tamburi, con quei tromboni, con quei clarinetti. Ed anche lei, la musica, ha il ritmo di quello che racconta, minimale, ipnotica, buffa, abitudinaria e stanca.
Come detto Andersson si avvale molte volte di un impianto teatrale, inquadratura ferma e gesti e parole stanche al suo interno. E almeno 3 volte il senso di surrealtà diventa anche metacinematografico con le interpellazioni, ossia con i personaggi che si rivolgono direttamente alla macchina da presa e allo spettatore. Tra l'altro una di queste interpellazioni, quella che parte dal traffico, porta alla scena della tovaglia, per me comicamente la più portentosa.
Ma ci sono molte altre scene memorabili, come quella del barbiere arabo, quella kubrickiana della cena di corporazione (perfetta per movimenti di macchina e dei personaggi), la casa treno finale, o la morte del dirigente, vera e propria dimostrazione di come la vita sia qualcosa di effimero che può finire da un momento all'altro.
Anche se, lo ammetto, ho trovato un drastico calo tra il primo tempo e il secondo, e qualche momento probabilmente tirato troppo per le lunghe. Non un film perfetto, certamente, ma è impossibile cercare perfezione in film senza struttura.
Ma tornando alla morte del dirigente proprio questo vorrebbe raccontare il film, sin dal titolo. Noi siamo i viventi, quelli non ancora morti, dovremmo saperlo e fare in modo di, come disse qualcuno, aggiungere vita ai nostri giorni, non giorni alla nostra vita.
Non ci riescono i personaggi anderssoniani, forse nemmeno ci provano fino in fondo.
Forse son talmente rassegnati che anche nei sogni qualcuno invece di un riscatto e della felicità finisce in una sedia elettrica.
Eppure, eppure, in quel bar si dice che domani è un altro giorno.
E se è vero che questa frase nasconde l'abitudinarietà e l'eterno ripetersi è anche vero che domani è sempre domani.
E domani è sempre anche speranza, futuro.
E un metro di stoffa rossa mancante che magari qualcuno ritroverà.