Magazine Libri

Recensione. Zagreb, di Arturo Robertazzi

Creato il 14 dicembre 2011 da Patriziabi (aspassotrailibri) @openars_libri
Recensione. Zagreb, di Arturo Robertazzi

Giudizio 4/5

Zagreb, di Arturo Robertazzi – ed. Aisara – 2011.

Trama. Mentre fuori divampa la guerra, in una fabbrica abbandonata e trasformata in un lager, un luogo in cui ogni cosa sembra aver perso il suo significato, uomini logorati dall’odio di uno scontro fratricida hanno perso la loro umanità e trascinano la propria esistenza verso un vortice di morte e distruzione.
Un incontro inatteso, l’eco di un legame mai dimenticato sembra deviare il corso inesorabile del destino. Fra la devastazione e le macerie, la memoria di un tempo passato in cui la convivenza era possibile illumina il presente e svela l’orrore della guerra, l’orrore di ogni guerra. [Dalla quarta di copertina]

Scrittore. Arturo Robertazzi vive e lavora a Berlino (www.arturorobertazzi.it)

Recensione. Zagreb, di Arturo RobertazziOsservazioni speciali di Patrizia. (Audio del post)
Un libro scritto in prima persona, un Io narrante che si muove in un unico scenario, quello della guerra. Ma qual è il nome del protagonista? Quali sono i tratti del suo viso, la sua fisionomia, il suo aspetto? Non lo si saprà mai e questo non lascia lacune tra le pieghe dell’animo del lettore. Ci si accorge presto, durante la lettura, che conoscere queste informazioni è superficiale ed anche inutile al fine della narrazione. Non importa il suo nome, né il colore dei suoi occhi: protagonista di Zagreb (nome croato di Zagabria) è ciò che quegli occhi hanno scrutato ed interiorizzato, ciò che quelle mani senza nome hanno toccato, sfiorato o scaraventato nel vuoto, nella voragine, fisica ed emotiva, che la guerra partorisce.
Un libro di forte impatto psicologico, in cui il punto di osservazione non è quello delle vittime, ma sembra essere quello dei carnefici.
Sembra, perché in questa guerra in cui “Puntare. Mirare. Sparare” sono solo i gesti meccanici con cui si esprime la follia (“E così le esecuzioni scivolano via senza intoppi. Noiose: puntare, mirare, sparare. Divertenti: puntare, mirare, sparare. In fondo sempre uguali: puntare, mirare, sparare.” p. 8 ) i ruoli scelti dai personaggi sono altra cosa rispetto a quelli che il destino, il cuore e l’istinto riservano a ciascuno.
Zagreb è la città fantasma che si intravede all’orizzonte, in cui si combatte la guerra per il potere.
In una fabbrica dismessa di auto italiane, nella landa croata, si combattono le battaglie per la sopravvivenza. La Base la chiamano (“in cui il silenzio, vivo, bisbigliava attraverso i lamenti dei prigionieri: quello era il respiro della Base.” p. 45) in cui “ora gli uffici al piano inferiore venivano usati come celle per i prigionieri, la mensa per le esecuzioni e le cucine come deposito di cibo ormai in esaurimento. (p. 7)
Ci sono i noi, che si aggirano per i corridoi dell’edificio in rovina: la Guardia, il Comandante, gli aguzzini, il plotone.
Ci sono loro, considerati animali, con un cartellino sul petto sul quale nome, nazionalità e religione testimoniano che i rumori della guerra esistono in quanto esiste colui che teme la diversità.
Immagini crude e crudeli vengono fotografate da un linguaggio brutale e diretto: non può essere altrimenti se si vuole rendere credibile il punto di vista attraverso cui si stanno vivendo le vicende. E Arturo Robertazzi lo ha fatto egregiamente.
L’esaltazione del potere delle armi, la sete di sangue, la vendetta, i falsi ideali, la morte sono raccontati dall’abile penna dello scrittore che dà voce alla paura ed al terrore.
Un racconto a tratti visionario, laddove le visioni che si manifestano al lettore sono le scene più coinvolgenti e più dirompenti di tutta la struttura narrativa.
Vivendo l’opera, da subito mi sono resa conto che è tra queste scene che si cela l’essenza e la peculiarità, la passione ed il potere deflagrante di questo libro, nonché la bravura dell’autore: ai rumori della guerra che si evocano in sottofondo, alla morte, alle esecuzioni, alla prigionia, alle ferite, si fa presto “l’abitudine” (letteraria si intende). Il lettore, messo al cospetto di altre emozioni, sente un avido desiderio di ritrovarle e, come in un perverso e godibile gioco psicologico, lo scrittore lo accontenta, intrecciando i fili della trama in modo da concedere all’interlocutore, centellinando, quel sapore diverso, estraneo all’abitudine, di cui è alla ricerca.
Ecco, dunque, il tragico gioco di Marko e Zeliko con una palla di stracci; il Cafè Bar Diksi, “la cui insegna, ondeggiando al soffiare del vento, sfidava la guerra.” (p. 36), gli scanzonati incontri del protagonista con l’amico Drazen, che gli racconta l’arte, e con la Venere Darka, che serve loro il caffè, in cui la tensione emotiva rimane alta per merito di innesti quali il profetico quadro di Egon Schiele (La famiglia), il messaggio celato nel biglietto di Drazen, il poster dei Rolling Stones.
A queste scene si aggiungono l’incontro con Emir, la suggestione delle sue domande ed il suo cielo blu senza paura, e quello con Tin, con la grazia delle sue risposte ed il cappotto blu che sembra proteggerla dal mondo.
Cambiano le scene e cambia il linguaggio, che diventa fresco e lieve: è così che, attraverso questa alternanza mai banale nè scontata, uno scrittore poliedrico riesce a trasmettere, tra le rovine della guerra, dolci profumi di vaniglia e cioccolato, di fragranze che annichiliscono i pensieri, candide carezze e tenerezza.
E’ questo che fa da contraltare, in una perfetta scelta dei tempi, alla violenza, alla devastazione, alle barriere che rendono nemici gli amici, che recidono le radici dei sentimenti, che trasformano gli uomini in demoni (come Alek), i folli in affidabili disperati (come Picche), i soldati in esseri umani (come Igor), i figli in traditori, i timidi amanti in aguzzini.
Un libro che si apre in un bel mattino (in cui sono state uccise quattro persone), che vive sette giorni di fiammate di cannoni e di barlumi di esistenze, che vorrebbe distendersi sotto un “umano” colore blu del cielo, e si chiude a terra, sul taccuino aperto di un padre che ha dimenticato di essere tale e sulla sentenza che condanna il proprio figlio.
Il lieto fine non è ammesso in questo romanzo e l’ennesimo plauso va all’autore per questa scelta, che anche sul finale consegna credibilità e spessore letterario ad un’opera che contrasta con il calore delle parole, senza incertezze, il gelo e la morte che porta con sè.

Arturo Robertazzi
Zagreb
ed. Aisara
Anno 2011, pagg. 128
ISBN 9788861040748

Dal romanzo…

“Una bestia che ha paura è un pericolo: di sicuro tenta il colpo. Ma neanche il panico va bene: il panico è pericoloso: la bestia è fuori controllo. Non panico quindi, nemmeno paura, ma puro terrore.” (p. 15)
“Percepii il calore del suo viso propagrasi dalle mie dita alle braccia, fin dentro di me: un tocco uano che non provavo da mesi, un breve contatto di cui non riconoscevo il sapore, un piccolo gesto che avevo dimenticato. Gli sfiorai il mento, risalii ai capelli, li accarezzai per lunghi secondi, finchè non si rilassò, liberato dal suo incubo, finchè non mi rilassai, liberato dal mio.” (p. 45)
“La Base era un mostro che ingoiava carne e sputava ossa, era un mostro che mangiava uomini e vomitava soldati.” (p. 84)
“In quella miseria brillava il vecchio ritratto: Siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terraa… <il nostro opposto e il nostro complemento.” (p. 111)

Galleria fotografica….


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :

Magazine