È una delle storie più conosciute di Venezia. Talmente nota che nel 1952 è stato girato un film con Doris Duranti, Mariella Lotti, Paolo Carlini e Renato Chiantoni.
Il suo nome non è famoso forse come quello di Giacomo Casanova, ma la sua figura, e la sua storia soprattutto, sono ben note a chi s’interessa di misteri, delitti irrisolti, giustizia sommaria.
Questo avvenimento è molto radicato nella mente dei veneziani, tanto da essere ricordato in tutti i Registri dei Giustiziati, anche se non se ne trovano tracce nei Criminali o Raspe (registri della Quarantia Criminale), né sui Diarii di Sanudo, il cronista che annotò nei suoi testi i principali avvenimenti della città.
Passava di là a quell’ora un giovane fornaio, (fornareto in dialetto veneto), che alcuni cronisti chiamano Pietro Faciol (da fagiolo), altri Pietro Tasca. Il giovane si stava recando in bottega, e scorto che ebbe il corpo, si avvicinò per vedere se l’uomo fosse ferito o ancora vivo. Quindi, colpito dalla bellezza del pugnale che giaceva insanguinato accanto al cadavere, lo raccolse da terra e lo mise in tasca. Con il pugnale dall'impugnatura d'argento ed il fodero ricoperto da pietre preziose incastonate, avrebbe sicuramente guadagnato un bel po’ di soldi, con i quali magari fare un bel regalo alla sua fidanzata, Annella, domestica nella vicina casa del conte Barbo o, come sostengono alcuni maliziosi cronisti, figlia illegittima del conte stesso.
Il morto fu presto identificato come il conte Alvise Guoro, o Alvise Valoer, come sostengono altri cronisti, cugino della contessa Barbo.
Per interessamento della fidanzata Annella intervenne lo stesso conte Barbo, sicuro dell’innocenza di Pietro, ma non potendo far nulla per liberare l’innocente dalla sua prigionia, nonostante fosse membro del Consigliodei Dieci e quindi avesse una certa influenza sul Doge e sulla stessa classe politica veneziana, decise di liberare Pietro seguendo vie meno “ordinarie”.
Da queste prigioni il conte Barbo aveva deciso di far fuggire Pietro, con l’intenzione di nasconderlo nel Fondaco dei Tedeschi, zona tranquilla e isolata, da dove qualcuno avrebbe poi potuto prelevarlo per portarlo in salvo. Putroppo però l’impresa non andò a buon fine, perché due gendaremi che facevano la ronda attorno al Palazzo Ducale si accorsero di strani movimenti, andarono a indagare e scoprirono il fuggiasco Pietro, che quindi fu nuovamente catturato e nuovamente rinchiso ai Piombi. La sua situaizone, ora, era molto più seria e preoccupante del previsto.
Sottoposto a tortura, gli fu estorta una falsa confessione e la condanna a morte fu inevitabile.
La leggenda vuole che, prima di morire, il fornareto avesse pronunciato questa frase: «No pasarà un ano che de tuti quei che me ga condanà, no ghe sarà più nissun», cioè «Non passerà un anno che di tutti quelli che ni hanno condannato non ne resterà più nessuno».
Il doge ebbe appena il tempo di pronunciare la frase di rito «Giustizia è fatta!» che dalla folla si levò un grido. Un servo di casa Barbo accorse trafelato, facendosi largo tra la folla ammutolita per la “maledizione” lanciata da Pietro, e bestemmiando e imprecando urlò che il suo padrone, il conte Lorenzo Barbo, aveva appena confessato alla moglie di essere stato lui ad assassinare Alvise Guoro.
Le autorità della Serenissima, che si vantavano sempre di aver in ogni momento attuato una giustizia giusta per tutti, si raggelarono alla notizia. Da quel giorno in avanti, ad ogni udienza processuale veniva pronunciata una frase di rito: «Recordeve del povaro fornareto!», «Ricordatevi del povero fornaretto», per tutelarsi dal rischio di ingiuste condanne.
A conclusione, vi segnalo questa interessante ricostruzione dell'esecuzione del povero fornareto, una storia dell'evento raccontata in prima persona di uno dei veneziani più famosi. Riassunto tratto da "Il fornaretto di Venezia" di Franco Zagato.