“I meccanismi di assistenza e di sicurezza hanno effetti individualizzanti: fanno dell’individuo, del suo comportamento, della sua esistenza, non solo di quella di tutti, ma di quella di ognuno, un avvenimento rilevante, persino necessario, indispensabile per l’esercizio del potere nelle società moderne. L’individuo è diventato una posta in gioco fondamentale del potere. Paradossalmente il potere è tanto più individualizzante quanto più è burocratico e statale”.
(M. Foucault, Archivio Foucault 3, 1998, p. 112)
“La si sente probabilmente con intensità particolare nelle città degli Stati Uniti. In nessun altro luogo la povertà viene combattuta con maggior dispendio di mezzi. E in nessun altro luogo la lotta contro la povertà produce in misura così rilevante dipendenza, frustrazione, rabbia e nuove richieste. In nessun altro luogo infine dovrebbe risultare con tanta evidenza che la povertà – una volta modernizzata – resiste alle cure fatte di soli dollari e richiede una rivoluzione istituzionale (…) I poveri degli Stati Uniti sono i soli che possano parlare a ragion veduta della sorte che incombe su tutti i poveri in un mondo in via di modernizzazione. Stanno scoprendo che non c’è somma capace di eliminare la distruttività intrinseca delle istituzioni assistenziali, una volta che le gerarchie professionali di queste istituzioni abbiano convinto la società della assoluta necessità morale delle loro prestazioni”.
(I. Illich, Descolarizzare la società, 2010, p.4)
Beatrix Potter, “The Tale of Jemima Puddle-Duck”
È ormai da qualche tempo che si sta diffondendo, negli ambienti più diversi ma soprattutto vicini alla sinistra, l’idea che un reddito sganciato dal lavoro rappresenti una soluzione all’attuale crisi economica e alla povertà crescente nel nostro Paese. Reddito di cittadinanza, reddito di esistenza, reddito minimo garantito sono le declinazioni diverse con le quali ha preso piede l’idea che lo Stato debba garantire un reddito mensile minimo (nel dibattito tenutosi all’Agorà del Lavoro con Ina Praetorius si parlava di un reddito di 1.000 euro al mese). Non legga questo intervento chi vuole solo chiarirsi le idee sulle differenze, a volte sfumate a volte più decise, che intercorrono tra queste varie proposte. In rete si trovano moltissimi articoli che le illustrano punto per punto. Quello che ci interessa è esercitare analisi e pensiero critico sulla sull’idea di fondo che collega queste proposte.
L’idea in sé sembrerebbe bella, addirittura giusta. D’altra parte come criticare l’opzione di un mondo in cui ciascuno dispone di che sostentarsi? Questo in prima battuta. Tuttavia ci sembra che l’opzione sia accolta troppo spesso con un atteggiamento acritico, senza soffermarsi sui punti problematici che, a noi invece, appaiono evidenti. Discuteremo l’idea di un reddito statale nei suoi presupposti, nella sua natura e soprattutto nelle sue conseguenze.
I PRESUPPOSTI DEL REDDITO.
Il reddito minimo garantito presuppone il sistema capitalistico. Il reddito minimo garantito si fonda su un’idea di Stato altamente centralizzato. Il reddito minimo garantito si fonda sull’ individuo, come entità isolata.
Anche se è fuori di dubbio che la povertà nel nostro Paese sia aumentata vertiginosamente (l’ultimo dato Istat parla di quasi il 30% degli italiani a rischio povertà o esclusione sociale, in aumento) l’erogazione di un reddito statale incide sugli esiti nel breve periodo, ma non sulle cause della povertà né sulle conseguenze sul lungo periodo. Contrariamente a quanto affermano i suoi sostenitori, l’idea di un diritto al reddito non è un’opzione anti-capitalista, non mette in crisi i presupposti dell’attuale sistema economico e agisce all’interno delle stesse logiche. Nella sua formulazione esso presuppone l’esistenza di un’amministrazione statale forte, altamente centralizzata e ricca.
Non solo. Nella richiesta di un reddito è intrinseca la difesa dello Stato assistenziale, il cui pensiero fondante si inscrive all’interno di una logica fortemente paternalistica e che non ha mai prodotto nulla di positivo nella nostra storia. Lo Stato assistenziale, lo Stato che ti accompagna “dalla culla alla bara” è il contrario della libertà.
Non sarebbe preferibile puntare sulla garanzia di servizi essenziali, servizi che, se garantiscono una vita dignitosa, al contempo assicurano dei posti di lavoro in un circolo virtuoso per cui non è lo Stato dall’alto e dal centro che devolve come un padre generoso ai suoi “sudditi” ma è il rapporto tra istituzioni pubbliche, lavoratori e fruitori di servizi che dà vita ad una rete di relazioni proficue dal punto di vista sociale e politico? Il fulcro non dovrebbe essere il singolo ma la comunità che si sviluppa attorno ad un servizio in una visione che fa del cittadino parte attiva – e non, come nell’ipotesi del reddito, il soggetto passivo che riceve una somma di denaro.
Infine, la proposta secondo cui il reddito sia da attribuire all’individuo appare positiva nella misura in cui in questo modo viene superata la logica secondo la quale le politiche sociali nel nostro Paese hanno al centro il nucleo famigliare. Questa attuale impostazione, infatti, ha conseguenze ancora più gravi nella misura in cui la natura stessa della “famiglia” sta cambiando profondamente nella nostra società, e molti nuclei che a tutti gli effetti sono “famigliari” non vengono identificati attraverso la definizione e gli strumenti classici. Tuttavia, spostare la lotta ai diritti di individui isolati appare altrettanto irrealistico. La realtà sociale italiana non è rappresentata da coppie unite dal vincolo matrimoniale con figli a carico, ma nemmeno da soggetti svincolati, “monadi” (nomadi?) nella società. Con esempio concreto: un disoccupato che viva in una casa di proprietà con dei famigliari che lo sostengano (magari delle generazioni precedenti, attraverso le proprie pensioni e rendite…) può essere in una posizione economica migliore rispetto a un occupato part time che viva da solo e in affitto in una grande città con canoni costosi.
In una delle sue versioni, la proposta del reddito minimo viene inoltre pensata come somma elargita senza considerare le differenze di reddito iniziale. La proposta ci è talmente oscura che possiamo solo immaginare che provenga dal desiderio di “livellare” tutti, come se l’uguaglianza fosse, in questo modo, a portata di mano. Peccato che non essendo un punto di partenza, non ne è nemmeno l’esito finale. Zero più mille fa mille, diecimila più mille no. Banalizzando, l’idea che Emma Marcegaglia e le sottoscritte siano destinate a ricevere la stessa somma da parte dello Stato rende faticoso scorgere le tracce di una battaglia per l’eguaglianza.
LA NATURA DEL REDDITO.
Il reddito minimo ha natura monetaria. Il reddito minimo è reddito statale. Il reddito minimo è ideologico e irrealizzabile.
L’idea del “reddito” prevede che lo Stato corrisponda una quantità di denaro fissa ai suoi cittadini (o addirittura, slegandolo dalla problematica istituzione della cittadinanza, a una fascia di popolazione anche più ampia). Conosciamo tutti la situazione dei nostri conti pubblici, frutto di anni di sperpero oltre che di una crisi globale rispetto alla quale non abbiamo ancora soluzioni convincenti. L’ipotesi più probabile per la possibilità del reddito è quella che prevede dei tagli alla spesa pubblica capaci di compensare la spesa che verrebbe erogata per i redditi svincolati dal lavoro. E quindi si pone il problema di dove tagliare per poter elargire questa somma a tutti coloro che non lavorano. E ciò tenuto conto che non si sta parlando solo dei disoccupati ma anche di chi, prendendo meno o poco più di 1.000 euro al mese (ossia la maggior parte delle persone) potrebbe preferire il reddito garantito ad un lavoro mal pagato. Stiamo parlando quindi di milioni di persone. Come può l’ipotesi essere realizzabile?
Ma il punto che ci appare più grave non è quello economico, bensì quello politico. La lotta per il reddito prevede che la lotta per i diritti si trasformi – scusandoci per la brutalità dell’espressione – in lotta per i soldi. Le lotte per il reddito monetizzano i nostri diritti, li mettono “in vendita”, senza prestare sufficiente attenzione al fatto che i diritti sono esercitati soprattutto usufruendo di servizi essenziali, piuttosto che utilizzando capitali. Anche qui può essere d’aiuto qualche esempio concreto.
JeeYoung Lee, “This is Not Enough”
Una di noi ha vissuto per un anno in una città estera con i servizi pubblici tra i più efficienti al mondo. Una rete di trasporti attiva 22 ore su 24 per 365 giorni l’anno copriva tutta l’area urbana ed extraurbana. Gli abbonamenti al trasposto pubblico si potevano acquistare a prezzi modici e modulati su fasce di occupazione / reddito (disoccupato, lavoratore full-time o part-time, studente, pensionato, ecc.). Una efficiente rete ferroviaria regionale e una ottima rete di piste ciclabili facevano il resto. Solo pochissimi residenti con necessità di mobilità particolari avevano una reale necessità dell’automobile. In un’altra città, invece, la situazione dei trasporti pubblici era disastrosa. Mezzi sempre in ritardo, corse continuamente cancellate, assoluta incertezza sul servizio e impossibilità di poter prevedere un orario di arrivo. In questa città c’è stata la necessità di acquistare un mezzo privato: ha speso immediatamente una somma notevole per l’acquisto e continua a spenderne ogni anno per mantenerlo, senza contare la perdita di valore del mezzo stesso, fatto che le sta facendo sperperare, poco a poco, l’investimento iniziale. Posto che nelle due città lei abbia avuto lo stesso reddito e anche lo stesso potere d’acquisto, nella seconda si trova ad essere molto più povera. Questo stesso ragionamento si può applicare non solo ai trasporti pubblici, ma alla sanità, all’assistenza, all’istruzione, all’acqua (si veda la tragica vicenda dell’acqua all’arsenico di Roma) e in generale a tutti i servizi pubblici che de-monetizzano la nostra esistenza quotidiana, poiché trasformano il denaro in servizi che soddisfano diritti ed esigenze fondamentali. Ora, perché mai in un contesto generale che è già di sottrazione di servizi la lotta dovrebbe essere focalizzata non sul mantenerli e ampliarli, bensì sul monetizzarli? La sensazione è che si venga a creare un contesto in cui il reddito statale erogato all’individuo diventi un alibi politico per sottrarre ulteriormente servizi, lasciando la persona sola con il proprio denaro. E, paradossalmente, più povera.
LE CONSEGUENZE DEL REDDITO.
Inflazione, deresponsabilizzazione, precarizzazione.
A tutto ciò si aggiunge il logico effetto che si produce ogniqualvolta viene immessa rapidamente una ingente quantità di moneta nel mercato, cioè l’inflazione. Immettere nuova moneta comporta sempre, inevitabilmente, un aumento dei prezzi, aumento che dunque riduce il valore del reddito minimo. Il rischio è che una somma che ad oggi potrebbe parere sufficiente sia ben presto l’equivalente di un’elemosina. Inoltre la garanzia di un reddito “regalato” comporta inevitabilmente l’“infantilizzazione” di chi lo percepisce, la sua deresponsabilizzazione, nonché, per converso, la “paternalizzazione” di chi lo elargisce.
In sintesi. In questi anni vediamo che le risposte alla crisi occupazionale si presentano da un lato in termini di precarizzazione dei rapporti di lavoro (la cosiddetta “flessibilità”); e dall’altro non nel rafforzamento e ampliamento dei servizi essenziali per le persone e per la vita comune (a quando la battaglia per inserire l’assistenza odontoiatrica nel servizio sanitario nazionale, anyone?) bensì, al contrario, nell’ideazione di strumenti di welfare che a) monetizzano questi diritti, b) li sanciscono irrevocabilmente come individuali, c) fissano la dipendenza della cittadina e del cittadino dalla politica finanziaria di uno Stato centrale che, anche volendo concederne la totale buona fede, proprio su questi temi ha palesato il proprio vuoto di sovranità e dunque non fornire dare garanzie di continuità. Abbiamo anche visto che le grosse fette di spesa pubblica sono i “bancomat” più veloci per le politiche di austerità (vedi l’innalzamento età pensionabile), e dunque non è pessimistico ritenere che i redditi garantiti sarebbero esposti a minacce politico-finanziarie molto gravi. Sono illusorio, volubili, dunque pericolosi per chi ne beneficiasse.
Infine, un paradosso: essendo un tentativo di rimedio (si potrebbe anche dire: una “miglioria”) le battaglie sui redditi avvallano le politiche di precarizzazione. Non affrontano il problema occupazionale in modo diretto. Lo schivano.
Tutto questo non esclude ma al contrario afferma che i modelli di welfare siano da innovare. Non devono essere costruiti e modellati a partire dalla figura centrale dello Stato-padre che elargisce soldi e assistenza a individui inattivi politicamente e socialmente. È necessaria un’inversione di rotta: la partecipazione attiva contro la dipendenza passiva. Le forme di welfare da sviluppare sono quelle che si basano non sulla gerarchia Stato – individuo bensì sullo sviluppo dell’autogoverno e delle relazioni tra persone. Si tratta di promuovere reti di lavoro e comunità di sostegno e solidarietà, capaci di promuovere nuovi modi dello stare insieme. In questi anni di crisi c’è stato un fiorire di esempi che mostrano come le situazioni di difficoltà siano in grado di essere fortemente creative dal punto di vista politico. La spinta al cambiamento non viene mai dal benessere. Questa, almeno è una buona notizia.