Regioni: dimagrire si può

Creato il 09 novembre 2014 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

Ogni volta che il Governo diminuisce i trasferimenti agli enti locali, Sindaci e Governatori si stracciano le vesti minacciando nuove tasse e ripercussioni sui servizi ai cittadini, in primis sulla sanità.
Ma è proprio vero? O si tratta di un alibi per continuare imperterriti a spendere come prima?
In questo articolo-inchiesta Capire davvero la crisi dimostra che anche le Regioni possono/devono fare la loro parte nella riduzione della spesa: dal 2003 al 2008 la spesa regionale è cresciuta dell’8% all’anno; il finanziamento statale del sistema sanitario salirà dai 109,9 miliardi del 2014 ai 112 miliardi nel 2015, mentre nel 2000 i finanziamenti erano 67,7 miliardi, quasi la metà con solo 2 milioni di cittadini in meno.
Nel contempo, i consigli regionali costano circa 1 miliardo di euro all’anno, quasi quanto la Camera dei Deputati; i compensi lordi ai consiglieri sono circa 230 milioni, e altri 170 milioni vanno per pensioni e vitalizi ai consiglieri cessati dal mandato; in più vi sono i contributi ai gruppi consiliari che raggiungono quasi i 100 milioni.
In buona sostanza, dimagrire si può e in questo articolo Capire davvero la crisi ve lo dimostra.

Comuni, Province – ancora loro, ma non erano state abolite? – e Regioni sono in rivolta. Non passa giorno che non si registri un attacco di qualche sindaco o governatore, a suon di dichiarazioni o eventi pubblici, contro il Governo in carica. Il motivo? Nella Legge di stabilità per il 2015 – per altri versi criticabile – il Governo guidato da Matteo Renzi si è deciso finalmente a tagliare anche un po’ di spesa pubblica, a partire da quella degli enti locali. Per il prossimo anno, nel progetto di Legge di stabilità che però deve passare ancora il vaglio parlamentare, sono previsti 4 miliardi in meno alle Regioni e 1,2 miliardi in meno per Comuni e Province. Vi sembra tanto o poco? Vediamo, numeri alla mano e al netto della propaganda, perché più di un “taglio feroce” assomiglia a una “carezza”.

Si potrebbe cominciare rinfrescando la memoria del lettore su qualche episodio salito agli onori della cronaca nel recente passato, prima però di inabissarsi e di essere sovrastato dalle lagne dei governatori di regione che oggi a reti unificate lamentano: “Se tagliate qui, dovremo chiudere gli ospedali”. Nel 2012, per esempio, la giunta di centrodestra che governava il Lazio fu spinta alle dimissioni dopo che si era scoperto che il consigliere Franco Fiorito aveva fatto in due anni 109 bonifici dal conto del Pdl al proprio conto corrente, di importi compresi tra 4 mila e 8 mila euro, per un totale di 753 mila euro, ufficialmente “per mantenere il rapporto eletto/elettore”, ma di fatto per automobili e altre amenità.

Mentre nel maggio 2013 Fiorito veniva condannato a 3 anni e 4 mesi di reclusione, in Sardegna un altro consigliere del Pdl veniva arrestato per aver usato 20 mila euro di fondi pubblici per organizzare il proprio matrimonio.

Nemmeno il Nord ovviamente si salva: nel 2011 un consigliere regionale leghista della Lombardia, Cesare Bossetti, avrebbe speso 15 mila euro in pasticcini in un anno. Quando gli enti locali dichiarano di essere messi “spalle al muro” dal Governo di turno, un po’ di memoria storica sugli scandali che furono – anche molto più gravi di quelli qui citati – può tornare utile (Qui una inchiesta di Lettera43 del 2013 Consigli regionali: la mappa degli scandali e qui una più recente appena pubblicata dall’Espresso Quando Regioni fa rima con spreconi). Ma va pur detto che con casi simili si potranno riempire decine di pamphlet anti-casta, ma difficilmente si potrà offrire al contribuente un quadro chiaro.

Meglio partire stabilendo qualche ordine di grandezza a proposito delle potentissime Regioni: su 10 euro di spesa annuale di tutta la Pubblica amministrazione italiana, all’incirca 2 euro sono di competenza regionale. La spesa corrente delle regioni, quindi quella per trasferimenti a sanità e trasporto pubblico locale, stipendi e consumi intermedi, è pari a 150 miliardi l’anno. La spesa in conto capitale, destinata a investimenti da parte del settore pubblico, supera i 20 miliardi l’anno. Ridurre questo ammontare di 4 miliardi, come in linea di principio chiede il Governo nella Legge di stabilità, equivale a un taglio del 2,3% annuo. Vi sembra ancora troppo? Difficile crederlo. Soprattutto se, assieme alla Corte dei Conti, teniamo a mente che dal 2003 al 2008 la spesa regionale era cresciuta dell’8% all’anno. Prima dell’inizio della crisi, insomma, le Regioni hanno speso in tutta allegria.

Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma le Regioni sono responsabili di un capitolo di spesa importantissimo, la Sanità! E questa ammonta a circa l’80 per cento dei loro bilanci”. Vero, ma con tre “caveat” grandi come una casa.

Primo: è impossibile dimostrare che, superata una soglia minima che in Italia abbiamo superato eccome, “più spesa per la sanità” significhi automaticamente “più salute per i cittadini”.

Secondo avvertimento: sarebbe onesto ricordare, da parte dei Governatori che oggi si stracciano le vesti per la riduzione dei trasferimenti dallo Stato centrale, che nel luglio scorso, con il Patto della Salute, questo stesso Governo decise che il livello del finanziamento del Servizio sanitario nazionale a cui concorre lo Stato sarebbe aumentato, salendo dai 109,9 miliardi nel 2014 ai 112 miliardi nel 2015 (da ricordare che nel 2000, quando gli italiani erano 57,6 milioni e dunque soltanto 2 milioni in meno rispetto ad oggi, i trasferimenti annuali che finivano nelle casse delle Aziende sanitarie locali erano 67,7 miliardi di euro, quasi la metà dei trasferimenti odierni!).

Quello che nessuno dice è che, con due miliardi in più per il 2015, di fatto il taglio di 4 miliardi alle Regioni previsto nella Legge di stabilità viene dimezzato. Su una spesa complessiva di 160 miliardi e una spesa sanitaria di 110 miliardi, il Governo Renzi chiede una riduzione di poco superiore all’1 per cento delle uscite. Tanto o poco? A voi giudicare.

Non prima di aver considerato una postilla finale sui “costi della politica” sostenuti dalle Regioni (o, più propriamente: da noi contribuenti), e che riprendiamo alla lettera da un’analisi svolta dall’economista Roberto Perotti (Università Bocconi) per il sito LaVoce.info: “Complessivamente, i consigli regionali costano circa 1 miliardo di euro all’anno, quasi quanto la Camera dei Deputati. I compensi lordi ai consiglieri sono circa 230 milioni, mentre si spendono circa 170 milioni per pensioni e vitalizi dei consiglieri cessati dal mandato. I contributi ai gruppi consiliari sono quasi 100 milioni. Le regioni più costose sono le due che forse più frequentemente si sono ritrovate al centro della cronaca: la Sicilia, con un costo totale di 156 milioni, e il Lazio, con 84 milioni (ai quali però come abbiamo visto bisogna aggiungere altri 20 o 30 milioni). Ovviamente però la spesa dipende anche dalle dimensioni del consiglio.

In media in tutta Italia gli emolumenti lordi a ciascuno dei 1.117 consiglieri regionali ammontano a poco più di 200.000 euro all’anno. Si passa dai 118.000 euro in Emilia Romagna e 140.000 in Valle d’Aosta ai 244.000 euro del Piemonte, 270.000 del Lazio, e 281.000 della Calabria” (Qui si può leggere la ricostruzione completa del professor Perotti: Nelle Regioni la politica costa un miliardo mentre qui è possibile leggere l’articolo di Pietro Monsurrò già pubblicato da Capire davvero la crisi La spesa “istituzionale” degli Enti locali Italiani)

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