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Regression e The Visit: Visioni Ingannevoli per Due Maestri a Confronto

Creato il 11 dicembre 2015 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Regression e The Visit: Visioni Ingannevoli per Due Maestri a Confronto

Insolita coincidenza il contemporaneo ritorno in sala di due cineasti come Alejandro Amenábar e M. Night Shyamalan. Non soltanto perché entrambi i registi debbono al medesimo genere, il thriller, le loro più grandi fortune commerciali e la successiva elevazione allo status di "autori", ma anche perché le loro filmografie - pur nella diversità dei soggetti affrontati - si sono ritrovate spesso a convergere intorno ad ossessioni analoghe e a riflettere ansie o paure non dissimili. Come negare del resto che pellicole come Apri gli occhi e Il sesto senso, oltre che abili esempi di decostruzione (e ricostruzione) del thriller, non costituissero riflessioni moderne sulla nostra incapacità di "osservare" in maniera attiva, durante quell'atto (passivo) che è il "vedere" cinematografico?

Erano l'incertezza diffusa e uno strisciante senso di ignoto, legati entrambi al concludersi del millennio, a suggerire ai due cineasti simili salti in un "buio" ancora più profondo di quello cinematografico. I loro erano sì modelli del nuovo intrattenimento globale, ma anche audaci voli stilistici (e pindarici) protesi, se non a procurarsi le risposte, quantomeno a riflettere sulle domande, quelle sugli orizzonti percettivi del cinema e sui nostri limiti di spettatori dinanzi agli stessi. Questioni sulle quali, e qui stava la novità, eravamo chiamati ad indagare insieme ai protagonisti dei film (come appunto il César di Apri gli occhi e il Dr. Malcolm Crowe de Il sesto senso), vivendone insieme angosce ed interrogativi esistenziali.

Pellicole, quelle citate, che non poterono che "deflagrare" all'epoca dinanzi allo sguardo anch'esso "ansioso" del pubblico, ma che diminuirono d'intensità dopo il rilassato "accomodarsi" di quest'ultimo dentro il decennio più vacuo, disimpegnato ed invadente di sempre (il divano era quello dei reality show, metafora scoperta dell'intorpidimento dell'occhio e della visione). All'indomani di quella collisione, il cinema di entrambi gli autori (soprattutto quello di Shyamalan) non ha mai mostrato segni di resa, continuando ad interrogarsi sugli inganni procurati dalla percezione visiva e sui meccanismi (i nostri?) di auto-persuasione, e piegando i cliché consolidati dei generi (l'horror, la fantascienza) a personalissime esigenze d'autore.

In particolare, nella più esigua filmografia di Amenábar, il potente Apri gli occhi (dove la sovrapposizione fra i due piani del reale e dell'immaginario assume valenza quasi meta-cinematografica) sembra costituire una sorta di ambigua dichiarazione d'intenti di tutto il cinema che verrà dopo. Negli anni seguenti il regista insisterà ancora sulle implicazioni di quel discorso, rielaborandolo però attraverso forme più classiche e meno dirompenti. In particolare Amenábar ragionerà sulle barriere imposte dallo sguardo, da quelle subdole muraglie psichiche (e sociali) che ingenerano meccanismi di rimozione psicologica (come in The Others), fino a quelle barricate erette dalla cecità religiosa e sconfessate dall'evidenza scientifica ( Agora).

In mezzo a loro però vi sarà spazio anche per altri sguardi e "visioni", come quelle oniriche e abbaglianti che abbattono le barriere di un corpo condannato all'immobilità, liberando verità tanto false quanto necessarie (i sogni di Javier Bardem in Mare dentro).

Di contro, nella più "bulimica" filmografia di Shyamalan (la cui ricerca d'autore è stata condizionata inevitabilmente dal successo), la riflessione sull'atto del vedere - e sulle sue illusioni/allusioni - si allargherà fino ad abbracciare ambiziose indagini sul significato di comunità ( The Village, Lady in the Water, E venne il giorno) e su quello di famiglia ( Signs, in parte il bistrattato Another Earth e quest'ultimo The Visit). Al medium-cinema, per il regista indiano, tocca il compito di portare alla luce certi particolari diaframmi psicologici, sociali e familiari generati dalla percezione sensoriale o dalla sua negazione (si pensi alla cecità vera e a quella indotta messe a confronto in The Village o all'oscurantismo critico sulla fiaba che impedisce alla realtà di esistere o "progredire" come accade in Lady in the Water). Il tanto celebrato twist finale che accompagna (anche in forma più stemperata) la totalità delle sue narrazioni non è soltanto l'atteso espediente di un astuto affabulatore, ma il fondamentale grimaldello che scoperchia l'illusione e riporta tutti gli equilibri alterati al loro ordine originario, ricalibrando, contestualmente, il nostro sguardo sulla verità.

Elaborazioni potenti, nascoste tra le filigrane di percorsi d'autore solo apparentemente distanti, e che oggi si incrociano nuovamente attraverso due pellicole di "genere" (thriller), assai meno banali di quanto possa sembrare ad un primo (miope ovviamente) sguardo del pubblico.

Con The Visit Shyamalan torna a flirtare con lo spettatore, quello "complice" ed adolescenziale degli horror Blumhouse ( Paranormal Activity e affini), aderendo solo in parte ai meccanismi consolidati del POV (cioè a una visione ormai "ortodossa" del cinema attuale), ma in realtà approntando lo scisma dall'interno del medesimo sottogenere.

Un processo di demolizione che opera, ancora una volta, in favore di temi più ampi come quelli del nucleo sociale e della cellula familiare. La storia dei nonni indemoniati e dei nipoti che tentano di documentarne l'incomunicabilità prima e la possessione dopo, cela assai più di un capriccioso e stantìo resoconto giovanilistico tipico dell'i-generation. L'ossessione moderna intorno all'immagine (la pornografia quotidiana del démos) è una malattia voyeuristica priva di anticorpi, che altera i rapporti familiari o perfino li "crea" laddove non esistono. Una patologia che necessita, ancora una volta, del filtro esterno del cinema per essere riconosciuta ed aggirata (di nuovo l'evidenza che non riusciamo a scorgere).

Anche Regression di Amenábar presta il fianco (horror) alle esigenze più ambiziose (e sociali) del suo fosco intreccio. Una storia che parla di ieri (siamo negli anni '90) come fosse un "oggi" non del tutto assimilato, e che getta un sinistro interrogativo non tanto su sette sataniche e sacrifici rituali, quanto sulla silenziosa capacità umana di elaborare verità partendo, nuovamente, da immagini fuorvianti. La verità è sempre stata lì a guardarci e stavolta non ci tende agguati come fosse un risaputo twist finale, ma si palesa come la più naturale fra le evidenze. Sconvolgente è semmai la nostra (attuale) incapacità di decodificarla in mezzo a quell'ipertesto mentale e visuale che oggi è ancora più complicato che negli anni '90. Amenábar racconta il passato come quella profezia che si sarebbe realizzata ed anche lui, come Shyamalan, restituisce una visione sconfortata della comunità, aggregato umano dove gli affetti (quelli veri) sono strumenti al servizio di una manipolazione. Sono visioni pessimistiche le loro, ancorate a un cinema che (forse) non esiste più ma che assumono connotati più sinistri in questo oggi in cui la realtà è asfissiata da nuovi reticolati.

Visioni dense le loro e ancora dotate di vitalità. Importanti proprio perché rischiano di essere fraintese o ignorate.


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