[...]Trascorse ancora del tempo, dominava incontrastato il nulla.
In quello stesso periodo mi si presentò l’occasione di partecipare ad un concorso letterario, per il quale avrei dovuto scrivere un racconto che aveva per tema il gusto.
Quale migliore opportunità se non sfruttare l’accostamento culinario con quanto stava accadendo, dai caratteri al limite del grottesco.Mi misi subito al lavoro e scrissi la storia di quanto avvenuto fino a quel momento attraverso l’intreccio di cibi, bevande e situazioni legate alla gastronomia.
Il racconto prese il titolo “Questione di Gusto”.
Senza fare alcun nome riportai la realtà dei fatti:
Questione di gusto
Era una giornata d’inverno, una di quelle giornate uggiose, fredde, durante le quali non hai alcuna voglia di aprire l’uscio di casa per affrontare la pungente sensazione del freddo incalzante.
Si presentava proprio uno di quei momenti propizi per la mente. Essa era chiamata a ispirarsi alle tecniche di concentrazione consigliate nella filosofia orientale, affinché fosse in grado di lenire le percezioni di freddo generate dalla implacabile azione meteo.
Fu per questo motivo che il mio corpo cominciò a essere avvolto da una morbida e piacevole sensazione di calore, al pensiero, quasi reale, di una bevanda calda. Non ci fu bisogno di chiudere gli occhi per vedere una sequenza di vivide immagini. Le mani stringevano una grossa e variopinta tazza, colma di una vellutata bevanda, scura, forte nei colori, ma soffice, anche se energica nel suo contatto con il palato e la lingua. Essa, avvolta dal tepore di cui il suo gusto è portatore, come in un abbraccio, diveniva istante dopo istante, una formidabile fonte, capace di trasmettere, per mezzo della mente, calore e piacevolezza a tutto il corpo.
Mi destai da quelle calde carezze. Pensai, però, che per un viaggio armonioso, in uno dei mondi racchiuso nei numerosi sapori invernali, mancasse un tassello.
Le bevande calde, soprattutto il cioccolato, non sono amiche della solitudine. Esse esprimono tutte le loro potenzialità solo quando sono assaporate in compagnia, durante una coinvolgente chiacchierata, seduti su un divano o in terra su un grosso tappeto, ai piedi caldi calzettoni e le gambe raccolte, avendo accanto a sé, o stringendo tra le braccia, vaporosi e morbidi cuscini.
D’altro canto, anche le loro gemelle estive, “in primis” il buon bicchiere di vino, richiedono le medesime circostanze per esprimere le loro doti, sebbene il delicato inumidirsi delle labbra, attingendo con piccoli sorsi dal bicchiere che danza tra le mani, avvenga in paesaggi e situazioni differenti.
In quel momento ero da solo, avevo bisogno di qualcosa che legasse con la necessità di essere avvolti dal calore, ma che fosse in grado di aggiungere, attraverso i suoi sapori, un pizzico pungente d’allegria.
Per questo motivo mi feci avvolgere dal tepore casalingo e accesi la televisione. Non pago, mi accomodai sul divano con un grosso cestello colmo di patatine cotte al forno.
Speravo che lo stuzzicante sapore delle patatine si mescolasse alle sensazioni di una piacevole trasmissione televisiva, affinché fossero stimolate per intero le mie percezioni sensoriali.
Restai deluso, perché le immagini che la scatola dell’irreale trasmetteva non si sposavano per niente con la fragranza di quelle piccole nuvolette dorate.
La bocca gustava la delizia del sapore, ma gli occhi percepivano il disgusto di parole, gesti e immagini.
Spensi la televisione, posai il cestello con le patatine e decisi di scrivere una storia che s’ispirasse a una famosa trasmissione televisiva.
Mi avvalsi della scrittura come una terapia, anche se in quel momento avrei avuto bisogno di un cibo cremoso, energico, che fosse in grado di catturare tutto l’amaro che assaporavo, restituendomi il friccicorio del buon gusto, pensai a un gelato artigianale. Abbandonai l’idea, perché volevo trattenere quei sapori di cibi irreali per trasferirli nella scrittura con la speranza di riordinare lo sfasamento che le percezioni di gusto culinario e di disgusto legate alle percezioni visive avevano suscitato in me, mescolandosi in un inaspettato e indesiderato connubio.
Potrebbe sembrare strano e non appropriato unire papille gustative e percezioni sensoriali esterne di diversa natura e invece anche la nostra mimica facciale si mette in azione non appena assaporiamo la frizzante vivacità dei sapori reali e di quelli legati alle percezioni dei sensi.
Pensiamo alle palpebre che dolcemente si chiudono per restare serrate alcuni istanti quando, con delicata maestria, la lingua schiaccia contro il palato la gustosa armonia di un cibo soffice e saporoso. Il viso resta rilassato e sorridente mentre le palpebre si risollevano affinché gli occhi percepiscano la realtà dei sapori che la lingua raccoglie dalle labbra, con un movimento lento e circolare.
Ora, di contro, la scena muta. Un’immagine di qualsivoglia genere, ma di pessimo gusto, appare ai nostri occhi, le palpebre si chiudono repentine per restar serrate con forza, mentre sul viso si formano chiare le linee che caratterizzano i segni dei sapori poco graditi, i quali non provengono solo dall’incedere dei cibi sulla lingua.
Terminai, dopo qualche tempo, la mia fatica letteraria.
Decisi di sottoporla all’attenzione della redazione che guidava il programma televisivo al quale mi ero ispirato, affinché ne ottenessi un esame e anche una forma d’assenso per un’eventuale pubblicazione.
Erano trascorsi circa due anni dal giorno in cui avevo inviato il plico con il materiale cartaceo e la lettera d’accompagnamento alla redazione del programma oggetto del mio lavoro, ma non avevo ancora ricevuto nulla, solo indifferenza.
Decisi, pertanto, di inviare un fax e una e-mail con la speranza che qualcuno avesse il buon gusto di inviarmi una risposta di qualsivoglia genere.
Ancora indifferenza.
Avevo deciso di rinunciare, ma poi un giorno le immagini che vidi scorrere sullo schermo della televisione mi fecero assumere l’espressione dello schifo. Le palpebre si abbassarono e il ghigno del disgusto coprì il mio volto, mi s’impregnò anche l’animo di quel sapore amaro tipico dei cibi mistificati e cucinati senza il tocco amorevole dell’artista della buona cucina.
In quasi tutti i programmi trasmessi, compresi i telegiornali, scorrevano notizie e immagini che palesavano le invereconde imprese d’esseri creati dal nulla e corredati di nulla, unitamente alla telecronaca d’insulse zuffe tra strani personaggi. Liti caratterizzate da interpreti ai quali forse non si riesce a dare una sistemazione alcuna, i quali con espressioni da invasati s’insultavano con la classe e l’intelligenza di una miriade di cellule in stato avanzato di decomposizione.
Provai a cambiare canale, ma lo spettacolo non mutava. L’accozzaglia di volti e voltucoli, che in quasi tutti i programmi si mescolavano e si rimpastavano per fare spazio all’ormai dilagante monopolio dei “soliti noti”, continuava a impadronirsi d’ogni immagine.
Fu a quel punto che le mie papille gustative cominciarono la loro danza d’insofferenza al sapore amaro dell’insipienza che si fregia d’esser qualcosa.
Pensai a quale poteva essere il motivo per il quale tutta quella volgarità e mancanza di buon gusto avessero tanto spazio e grande visibilità, mentre io che avevo proposto una mia fatica, forse anche brutta, ma rappresentava pur sempre qualcosa di concreto, non ero degno nemmeno di ottenere una risposta. In fondo avevo chiesto soltanto di essere esaminato.
Il gusto amaro del mal tolto mi fece scrivere una nuova mail a quelle persone tanto cortesi e professionali.
Mi rivolsi alla redazione come se fosse una persona fisica, poiché non avevo avuto alcun contatto con nessuno dei suoi componenti. Con decisione, ma con educazione e senza offesa alcuna espressi il mio risentimento. Chiesi che dopo due anni fosse mio diritto ottenere un’analisi della mia opera e una risposta, soprattutto perché non ero un mitomane o un adolescente in crisi d’identità, ero una persona senza raccomandazione alcuna che aveva sottoposto un lavoro a individui che sarebbero dovuti essere preparati e competenti, in virtù del lavoro delicato che svolgevano.
Qualche giorno dopo la mail, mentre assaporavo il gusto avvolgente di un ottimo cioccolato al latte, squillò il telefono.
Risposi, dall’altro capo la responsabile della redazione mi aggredì verbalmente sostenendo che io con le parole contenute nella e-mail l’avessi offesa. Cercai di chiarire che dopo due anni d’indifferenza un certo risentimento poteva essere giustificato. Lo stupore, intriso di quel sapore aspro dello sgomento, mi colse quando la cortese interlocutrice seguitò ad aggredire con la veemenza e la classe pari solo a quella di un goliardica vajàssa dei vicoli partenopei, mostrando di non essere per nulla a conoscenza dei miei precedenti tentativi di contatto.
Tra le parole urlate a caso compresi che mi invitava a rinviare il manoscritto, qualora fossi ancora interessato a farlo esaminare.
Fui tentato di risponderle come ben meritava, ma venni trattenuto da quel gusto delicato, lenitivo, soffice, avvolgente del cioccolato, che ancora ricopriva i miei sensi di gusto con una patina sottile ma ancora efficace. Probabilmente se in quell’istante a scatenare le papille gustative fosse stato del cioccolato fondente, più forte, aspro, nel suo gusto aggressivo e deciso, quasi certamente avrei consegnato alla meritevole interlocutrice ciò che con insistenza sembravano chiedere i sui modi.
Inviai subito il plico con il dattiloscritto, allegai un ricco vassoio di sfogliatelle e babà accompagnati da una missiva nella quale spiegavo di non avercela personalmente con nessuno della redazione, ma solo con l’indifferenza continuamente perpetrata ai danni di chi non possiede la stretta di “mani amiche”.