Reionizzazione? Chiedi alle galassie vicine

Creato il 09 ottobre 2014 da Media Inaf

Una rappresentazione artistica dell’universo primordiale. Crediti: Adolf Schaller/NASA-MSFC

Anche l’universo ha la sua età oscura. Un periodo, tra circa 400.000 e poco meno di un miliardo di anni dopo il Big Bang, in cui non si riesce proprio a trovare neanche un flebile segnale elettromagnetico che possa raccontarci che cosa sia avvenuto. Tutta la radiazione è stata assorbita dall’idrogeno neutro, il principale costituente dell’universo primordiale presente in quell’epoca, da cui si sono formate le prime stelle che hanno illuminato l’universo. Da quelle stelle, soprattutto le più massicce, è partita poi la radiazione ultravioletta che ha ionizzato nuovamente l’idrogeno, rendendo finalmente ‘trasparente’ l’universo. Consolidata questa ricostruzione dei fatti, il dibattito tra gli scienziati è invece assai vivace riguardo a quali siano state le galassie primordiali che hanno contribuito al processo di reionizzazione e quali erano le loro proprietà. Erano solo quelle molto grandi? Oppure il merito va alle tante ma di taglia più piccola? Le varie ipotesi hanno bisogno di conferme sperimentali e, grazie al continuo miglioramento della strumentazione, gli astronomi si sono spinti tanto lontano nello spazio e quindi indietro nel tempo, fino a raccogliere la flebile luce di quelle galassie che per prime sono ‘emerse’ da quella nebbia primordiale. Il lavoro comunque è estremamente difficile e soggetto ancora a molte incertezze osservative. Perché allora, invece di andare a cercare ai confini dell’universo, non scrutiamo nel nostro vicinato cosmico per trovare galassie che potrebbero essere dei validi ‘sosia’ di quelle che hanno reionizzato l’universo tredici miliardi di anni fa?

E’ proprio partendo da questa domanda che il team di ricercatori guidato da Sanchayeta Borthakur, della Johns Hopkins University di Baltimora, Stati Uniti, ha individuato quello che secondo loro potrebbe essere un valido esempio di galassia ‘vicina’ e simile per vari aspetti a quelle che hanno contribuito alla reionizzazione. J0921+4509 – questa la sua sigla – si trova a circa 3 miliardi di anni luce da noi ed ha un notevole tasso di formazione stellare, sfornando ogni anno nuovi astri per una massa complessiva di 50 volte quella del nostro Sole. In più, la sua regione centrale è molto densa e ricca di stelle, molte delle quali massicce e in grado di produrre intensi venti stellari composti di gas neutro e ionizzato che viaggiano a velocità elevatissime, che possono facilmente superare i 3 milioni di chilometri orari. Tutti indizi che hanno convinto i ricercatori che quella potesse essere un ottimo candidato da studiare ulteriormente per cercare la risposta alla domanda più importante: da quella galassia fuoriesce anche una significativa quantità di radiazione ultravioletta, quella capace di ionizzare l’idrogeno neutro?

Le osservazioni spettroscopiche condotte con il telescopio spaziale Hubble e il suo strumento COS (Cosmic Origins Spectrograph) hanno evidenziato la presenza di intensi venti stellari, segno della presenza di giovani stelle massicce, le più efficienti sorgenti di radiazione ionizzante. Radiazione ionizzante che è stata effettivamente osservata uscire da quella galassia, nonostante la presenza attorno ad essa di polveri che potrebbero assorbire questa emissione. Per i ricercatori che hanno condotto lo studio, in pubblicazione sul prossimo numero della rivista Science, sarebbero proprio i venti interstellari a creare delle ‘fratture’ in questo guscio, dalle quali emergerebbero i raggi ultravioletti osservati.

«Attualmente le conferme dirette di radiazione ionizzante di origine stellare uscente da galassie sono molto rare e quelle esistenti sono affette da non poche incertezze» commenta Eros Vanzella, dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Bologna. «Quindi la conferma diretta dell’emissione di questa galassia è una buona notizia e potrebbe aprire la via alla identificazione di una classe di sorgenti sulla quale vale la pena eseguire ulteriori approfondimenti, anche a redshift intermedio (z<4). Sarà importante poi legare tali emissioni ai meccanismi fisici che le permettono. Se caratterizziamo questi  meccanismi in un regime non ionizzate, ovvero accessibile anche entro l’epoca della reionizzazione, allora i futuri telescopi dallo spazio e da Terra – come il JWST e E-ELT per esempio – potranno “vedere” le sorgenti ionizzanti “all’opera”. Questo vale anche per i nuclei galattici attivi (AGN), notoriamente molto efficienti nel liberare il mezzo interstellare con venti su scala galattica».

Fonte: Media INAF | Scritto da Marco Galliani


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