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Un termine può essere usato in modo più o meno improprio, e questo può accadere in modo più o meno intenzionale, ma con ciò non perde quei caratteri che lo rendono comunque distinguibile dai suoi sinonimi, dandogli lo specifico che lo fa insostituibile nel contesto in cui è chiamato a esprimerlo. Io ho un modo tutto personale, e certamente tutto empirico, so bene, per tentare di cavar fuori da una parola questo specifico che rende improprio, seppur impercettibilmente improprio, il sostituirla con un sinonimo: su un foglio, in alto, da sinistra a destra, trascrivo tutti i sinonimi che ne riportano i dizionari di riconosciuta autorevolezza (a volte cinque, a volte sei); poi incolonno sotto ciascuno i rispettivi sinonimi riportati dalle stesse fonti; quindi procedo a cassare con un tratto di penna tutti i termini che ricorrono immancabilmente in tutte le colonne; restano così quei termini che della parola mi danno lo specifico in ciò essi le negano, conferendole per lo più un senso figurato che ne distorce il significante, assegnandole un significato che riformula il suo etimo in una lettura che talvolta arriva ad essere grottesca. Troppo complicato? Semplifico con un esempio, prendendo il foglio che ho compilato nel modo sopra descritto per cercare lo specifico di «relazione», che viene da «relatus», participio passato di «referre», che letteralmente significa «riportare», il che dà ragione di come anche «rapporto», come «relazione», rimandi a «connessione», «collegamento», «nesso», ma pure a «resoconto», «comunicato», «esposizione», trovando poi in «corrispondenza» la coincidenza tra ciò che rende reciproco il «relatus» che è in una «relazione» e ciò che connette due individui nell’atto col quale uno dei due usa «referre» qualcosa all’altro. In quale colonna il termine «relazione» trova la maggior perdita di specifico? In quella che s’allunga sotto il suo sinonimo «legame», dove «connessione», «collegamento», «nesso», «rapporto» sono espressione del suo figurato, mentre per quello letterale troviamo «laccio», «cinghia», «corda», «filo», «cappio», che trasformano la «relazione», anche laddove non sia perso quanto di reciproco «riporta» l’uno all’altro, in un «vincolo» che include «obbligo» ed «impedimento». Direi che nel «legame» vada persa la libertà che muove alla «relazione» e, soprattutto, la libertà che muove a romperla: la rete di «relazioni» nel quale l’uomo si trova ad essere «sociale» smette di essere, laddove sia mai stata, prodotto del suo libero «corrispondere» (del suo responsabile «rapportarsi») per diventare il soffocante sviluppo di «corde» e «lacci» che «legano» ciascuno a tutti. «Noi siamo esseri sociali e relazionali», allora, dà a «società» e a «relazione» significati che conferiscono alla frase il senso di un richiamo che somiglia allo strattone che si dà al guinzaglio quando il cane prova a deviare dal cammino deciso dal suo padrone. Non avevo intenzione di tirarla così a lungo. Mi ero riproposto di premettere solo sei o sette righe a commento dell’intervista concessa dal cardinale Angelo Bagnasco ad Andrea Tornielli per La Stampa di domenica 20 marzo (pag. 9), ma tutto sommato va bene anche così: posso risparmiarmi di scendere nel dettaglio di ciò che Sua Eminenza afferma riguardo all’eutanasia, limitandomi a segnalare che quanto gli fa dire che non si abbia pieno diritto sulla propria vita discende da un’accezione del «relazionale» assai più vicina alla «corda» che alla «corrispondenza». Niente di nuovo, dunque, se non la riproposta dell’uso improprio – intenzionalmente improprio, non c’è alcun dubbio – di «relazione». A parte, quasi a dare un tocco buffo al mostro organicista, la risposta a «che cos’è l’“accanimento terapeutico”», cui la Chiesa si dichiara «non favorevole: «Quando medicine e farmaci sono ormai “rigettati” dal corpo, si sospendono le cure che risulterebbero un accanimento». E quand’è che un corpo li “rigetta”? Mai, quando è incosciente. Può farlo, come e quando crede, quando è libero e responsabile, oltre che cosciente. Sta di fatto che per “rigettarli” deve poter disporre di un’autonomia che si traduce inevitabilmente sul controllo di una vita, la propria vita, che l’«essere sociale e relazionale», al modo in cui lo intende Sua Eminenza, gli nega. D’altro canto, a un cadavere è davvero complicato far scendere una flebo: diremmo la “rigetti”. Però è proprio quando è cadavere che un uomo si trova nella perfetta condizione di non poter disporre (più) della propria vita, come dovrebbe accettare anche da vivo. Peccato.
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