La conclusione alla quale sono arrivato, dopo aver analizzato le dinamiche interattive dei rapporti umani, è che ad essere “malati” non siano gli individui, ma le relazioni umane. Naturalmente, per comprendere una tale affermazione bisogna che ci si metta, anzitutto, d’accordo sul significato da attribuire al concetto di malattia. In primo luogo, si capisce che non intendo riferirmi una forma di malattia di tipo biomedico: non è dell’influenza o del raffreddore che parlo. In secondo luogo, il concetto stesso di malattia richiama il suo opposto, che è quello di salute. Per cui se si parla di relazioni umane malate di conseguenza e per contrapposizione si fa riferimento a relazioni umane “sane”. Inoltre, se si prende coscienza che alcune relazioni sono malate si richiede immediatamente la cura. Per sgombrare il campo da possibili equivoci, parliamo allora di “relazioni patologiche”. Quand’è che possiamo essere certi di essere di fronte a una relazione siffatta? Quando la relazione presenta degli “eccessi”, eccessi che non sono completamente visibili agli attori che prendono parte alla relazione. La presenza di questi eccessi mi porta a dire che si tratti di una relazione patologica. A questo punto ci troviamo a rispondere a due ordini di problema: come possiamo comprendere di essere in presenza di taluni eccessi? Come si manifestano o quali sono i sintomi che ci fanno comprendere di essere in presenza di tali eccessi?
In modo “apodittico” affermo che ogni relazione umana esprime un “campo di forze” in cui il comportamento di ciascun attore è teso ad affermare o a preservare il proprio potere sull’altro. Il potere, così come lo configuro nei rapporti umani, consiste nella capacità di “controllare” il comportamento altrui al fine di adattarlo alle proprie aspettative. In altri termini, il potere consiste nel regolare il comportamento altrui secondo le proprie aspettative. Il potere, dunque, deriva da una capacità di controllo che si esercita sul comportamento altrui. Di questa capacità di controllo si può fare un uso e un abuso; finché questo controllo rimane nei limiti condivisi socialmente o reciprocamente negoziati, la relazione può essere definita “equilibrata”; nel momento in cui questi limiti vengono sistematicamente violati, allora la relazione comincia ad essere patologica. L’eccesso, dunque, è dovuto alla continua e sistematica violazione dei limiti entro i quali la relazione è fissata. Quindi, è dovuto a un abuso sistematico del potere nei confronti dell’altro. I sintomi, quando si tratta di violazione dei limiti condivisi, sono dati dagli incrementi marginali dei livelli di tensione che ogni violazione contribuisce a far accrescere.
Quando gli agenti tendono a cancellare completamente le differenze che distinguono un ambito dall'altro, allora mettono in atto degli eccessi che danno forma alle relazioni patologiche. Un eccesso di conformismo, conseguenza di un eccesso di prevaricazione, nei confronti di un altro soggetto provoca un annullamento della volontà. Un eccesso di previsione su ciò che l’altro desidera o vuole fare, provoca un senso di inutilità. Un eccesso di stimolazione provoca nell’altro un senso di smarrimento. Tuttavia, anche l’eccesso opposto, fondato sulla contrapposizione ad ogni costo, ha le sue conseguenze negative: un eccesso di ribellione comporta un essere un emarginato; un eccesso di imprevedibilità comporta un non essere preso sul serio, ad essere considerata una persona inaffidabile; un eccesso di stupore comporta un essere scambiato per uno stupido.
Nel campo della condotta sociale possiamo parlare di conformismo quando il processo di assimilazione è totale, per cui viene a cadere ogni distinzione tra aspettative e condotte conforme. In tal caso, quando si arriva a questo risultato, vuol dire che quelle linee di condotta su cui si fondavano le aspettative si sono completamente imposte agli agenti sociali, sono state completamente assimilate e trasformate in abitudini in consuetudini. Tuttavia, il conformismo totale o l’eccesso di conformismo conduce all’obbedienza totale, a piegarsi senza discutere ai dettami imposti da una società, e quindi ci trasforma ad essere degli autonomi, a essere dei non pensanti, ci toglierebbe infine ogni volontà, ogni voglia di vivere. Anche il potere predittivo mira a ridurre quanto più possibile l’esito incerto e avere un controllo sul rischio, ma un eccesso di previsione finisce con l’eliminare dal nostro orizzonte l’imprevisto e riporta tutta la realtà dei rapporti in un orizzonte di aspettative note e conosciute. Un tale eccesso toglia all'esistenza il suo senso: se tutto fosse già conosciuto e quindi prevedibile tutto sarebbe inutile. Se eliminassimo dall’orizzonte l’incertezza, l’imprevedibilità, si eliminerebbe anche la capacità di sorprenderci, di stupirci, di meravigliarci. La vita sarebbe trasformata in una piatta distesa, anzi, potremmo anche dire, in un vero e proprio inferno, perché il vero inferno dell’uomo sarebbe vivere una vita in cui non accade nulla[1]. Invece, proprio perché nella vita esistono sempre cose nuove e sorprendenti che riusciamo a trovare un senso nuovo che ci motiva ad agire. Infine e per concludere, anche un eccesso di novità, un eccesso di continue sorprese finirebbe per disorientarci, e rischierebbe di farci perdere ogni ancoraggio con la nostra esistenza.
[1] Magari è una conclusione paradossale, ma fino a un giorno punto: se tutto fosse già visto in anticipo, sarebbe come se in vita fossimo condannati a vedere sempre lo stesso film, l’assuefazione sarebbe così totale che tutto ciò che accade è come se non accadesse.