Max Rosenbaum e Zev Gutman sono due ultra-novantenni che vivono in una casa di riposo, Max da quando un ictus l’ha ridotto anni prima su di una sedia a rotelle, Zev da alcuni mesi perché soffre di demenza senile e la sua amatissima moglie Ruth, gravemente malata, non è più in grado di gestirlo. I due hanno legato subito perché hanno in comune un tragico passato: sono entrambi ebrei sopravvissuti all’Olocausto.
Max ha confidato a Zev un suo progetto: ritrovare Otto Wallisch, l’ufficiale delle SS che ad Auschwitz sterminò le loro famiglie e che nel 1946 si rifugiò negli Stati Uniti sotto il falso nome di Rudy Kurlander. Con quel nome e con l’età giusta ce ne sono quattro nel Nord America, ma nemmeno il Centro Wiesenthal è mai riuscito a identificarlo con certezza: servirebbe un testimone oculare, e loro due sono tra gli ultimi rimasti.
Il lucidissimo Max non è più in grado di compiere la ricerca e ha fatto promettere a Zev, fisicamente molto più in forma di lui, di occuparsene dopo che sua moglie sarà morta. Quando succede tutto è già pronto, meticolosamente programmato. Max ha organizzato l’itinerario completo: prima tappa Cleveland, in aereo: là Zev si procurerà una pistola e andrà dal primo della lista. E se questo non sarà il Kurlander giusto, biglietti di bus e camere d’albergo sono già prenotati per le tappe successive.
Gli consegna una busta con dei contanti per le spese e una serie di fogli con tutte le notizie che gli servono; in cima a tutto c’è scritto il suo nome e che sua moglie Ruth è morta: perché a volte si dimentica anche di questo. Con appresso solo una piccola, un po’ patetica borsa piena di pillole, Zev parte per la sua missione di giustizia.
Il primo Kurlander non è quello giusto: durante la guerra era negli Afrikakorps, lo provano alcune fotografie in cui posa fiero accanto al Feldmaresciallo Rommel. Il secondo sta morendo in un ospedale appena oltre il confine canadese; era sì ad Auschwitz, ne porta ancora l’atroce tatuaggio sul braccio: ma era internato in quanto omosessuale.
Bus dopo bus, albergo dopo albergo, Zev ogni sera telefona a Max e gli fa rapporto. E ogni mattina si sveglia e cerca la moglie: dov’è la sua Ruth? Solo dopo aver riletto i fogli di Max ricorda dov’è e che cosa sta facendo. Riparte per l’Idaho, per incontrare il terzo: forse sarà la volta buona. Purtroppo questo Rudy Kurlander è morto da appena un paio di mesi; ma nella sua casa resta suo figlio John, sceriffo della cittadina e come il padre convinto nazista.
Quando alla fine giunge, spossato, al lago Tahoe, ultima tappa del suo viaggio, Zev si trova di fronte ad una realtà del tutto imprevista.
Non è un caso che la sceneggiatura di REMEMBER – opera prima ma per nulla acerba di Benjamin August – abbia colpito il regista Atom Egoyan. Non è ebreo ma è di famiglia armena, ha dunque ben presente quello che significa l’annientamento di un popolo (al quasi dimenticato sterminio nel 1915 di oltre un milione di armeni ha dedicato nel 2002 il film ARARAT). In molte delle sue opere precedenti – penso soprattutto agli splendidi IL VIAGGIO DI FELICIA e FALSE VERITA’, ma anche al più recente e meno riuscito THE DEVIL KNOT – aveva inoltre mostrato la sua attrazione per il disvelamento del Male nascosto dietro le facciate più anonime ed imprevedibili, una capacità sottile, quasi chirurgica di mettere a nudo i lati oscuri dell’animo umano.
E poi è canadese, cosa che lo ha portato a gettare uno sguardo più lucido e critico sulla realtà statunitense: emblematica la scena dell’acquisto della pistola, quando il negoziante non si fa scrupolo a vendere una Glock ad un vecchio talmente confuso da chiedere di mettergli per iscritto le istruzioni su come caricarla. Altrettanto chiara è la sua posizione nei confronti della figura di John Kurlander, uno sceriffo, un difensore della legalità, eppure apertamente nazista e antisemita, protetto com’è – in questo caso in modo alquanto discutibile – dal Primo emendamento.
REMEMBER è un film con molte facce: è un dramma inquietante sull’Olocausto e insieme un vengeance thriller a metà strada fra TAKEN e MEMENTO. E in più in vari momenti mi ha fatto pensare a UNA STORIA VERA di David Lynch. Là un vecchio agricoltore percorreva centinaia di chilometri per ritrovare un fratello con cui riconciliarsi, qua c’è un anziano con ben diverse intenzioni, ma siamo di fronte alla stessa America. Niente città rumorose, disordinate e pericolose, è una provincia florida e pacifica, dove tutti sono cortesi e servizievoli, nessuno ha fretta né sente di doversi preoccupare se un bambino si mette a conversare con un vecchio signore sconosciuto. E ne passano molti di bambini, piccole presenze curiose, gentili e rasserenanti, ingenuamente ignari delle serpi velenose che strisciano ai loro piedi.
È facile raccontare storie con protagonisti giovani ed eroici: qui i personaggi sono uomini anziani, con i corpi consumati e le illusioni infrante. E la scelta degli attori è stata brillante, una fortuna avere a disposizione due 87enni così genialmente bravi e ancora in perfetta forma. Martin Landau è Max, mente acutissima in un corpo prostrato, Christopher Plummer è il tremante e confuso Zev: compare quasi in ogni inquadratura, l’intero film poggia sulle sue forti ed esperte spalle. Eccellente anche il resto del cast, con i tedeschi Bruno Ganz, Jürgen Prochnov e Heinz Lieven, più giovani e adeguatamente invecchiati dal trucco. Su tutti spicca, nel ruolo del feroce sceriffo, Dean Norris, che abbiamo visto come caratterista in mille telefilm ma ha la stoffa del vero protagonista.
Una storia che ha origine nel passato e si sviluppa, senza ricorrere a convenzionali flashback, interamente nel presente, con sincerità e senza sentimentalismi. Un film da vedere.
M.P.