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Remember: la memoria e l’oblio

Creato il 23 febbraio 2016 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma
Remember

Sono usciti film davvero significativi, quest’anno, vicino alla giornata della memoria: La grande scommessa, Il figlio di Saul, e un piccolo film francese, ma neanche tanto piccolo, Una volta nella vita. Pessima traduzione, per quest’ultimo, del titolo originale, Gli eredi,  che rende l’idea di quanto sia importante trattenere l’evento storico più assurdo del Novecento, e il senso della sua eredità, appunto.

Il titolo Remember, invece (ultimo lavoro di Atom Egoyan), è azzeccatissimo, nel rendere una storia individuale, di memoria e identità perdute  e tardivamente ritrovate, dei meandri mentali, perversi, quando le si vuole negare, ostinatamente. Potrebbe sembrare la solita caccia al nazista,  la ricerca della persona con cui pareggiare i conti in sospeso, quelli che hanno intrappolato l’intera esistenza. Un road movie dell’anima, un  po’ come il viaggio di Sean Penn fino alla desolazione del luogo in cui trova, alla fine, l’aguzzino del padre.

Potrebbe, ma è qualcosa di più e di diverso. Intanto per gli anni che il cacciatore, Zev Guttman (Christopher Plummer), porta su di sé prima in Nevada, e poi fino in Canada, scappando dalla casa  di riposo delle prime scene che ce lo presentano piuttosto immemore; tende a dimenticare tutto, anche la morte della moglie, avvenuta solo una settimana prima. I locali in cui vive sono la ricostruzione di casa sua, il che fa pensare ad un ricovero per anziani parecchio privilegiati. La sua fuga da lì non somiglia affatto a quella del Centenario che saltò dalla finestra e scomparve, inizio di avventure paradossali e divertenti. Qui  il dramma è scavato sul viso del protagonista, insieme agli occhi chiari disorientati per l’età e il peso di una missione emotivamente insostenibile.

Zev vive l’inizio di una demenza senile che lo disorienta spesso, soprattutto quando riemerge dal sonno (nel suo letto, sul treno, in albergo) e cerca la moglie Ruth. E’ costretto così  a consultare sempre la lettera del suo amico Max (Martin Landau), che lo segue al telefono perché bloccato sulla sedia a rotelle; Max ha previsto ogni mossa, ogni spostamento e si è tanto raccomandato di cancellare le azioni una volta compiute; è lui l’ ideatore puntiglioso del viaggio di Zev, di quello che Luigi Locatelli ha definito un thriller geriatrico.

Ebbene, sì, un po’ di suspence c’è, soprattutto quando Zev si trova nella casa di un nazista vero con cimeli dappertutto, svastiche e pure il feroce pastore tedesco. Non alzi la voce, non urli, chiede il nostro vecchietto, e nell’umiltà della richiesta sembra racchiusa tutta la sofferenza del passato. Non ci sono flashback, nessuna scena di rievocazione, soltanto una sirena in sottofondo e l’impegno di Zev a vendicare la sua famiglia e quella di Max scomparse ad Auschwitz. Mancano persino i richiami alle ombre della sua mente, perché non si tratta di ombre, ma di un muro spesso che ha innalzato allora per poter sopravvivere. La dimenticanza è l’unica vendetta e l’unico perdono (Jorge Luis Borges): sembra che Zev abbia fatto sua questa massima, vivendo un processo di rimozione come unica chance possibile.

Il nemico si nasconde sotto il nome di Rudy Kurlander, ma ce ne sono ben quattro e Zev sperimenterà dall’uno all’altro emozioni che vanno dalla comprensione alla compassione, fino alla paura, prima di scovare il vero responsabile, fino alla scena finale che spiazza, e tanto, lo spettatore. Geniale ? Improbabile?  Intanto, da un Kurlander all’altro, il nostro nonnino (splendida l’interpretazione dell’ottantasettenne Plummer), se ne va con il suo passo incerto, e la pistola in un beatycase, aperto più volte con la lentezza dei suoi gesti, non per prendere  il pennello da barba ma una Glock acquistata prima del suo passaggio in Canada.

Cos’altro c’è di diverso, o di più,  in questo vagare un po’ perso e un po’ no di Zev? Beh, c’è quella sorta di distacco, di incompiuta identificazione con cui il regista ha una certa confidenza. In Ararat (2002), per esempio, altro suo film sulla memoria,  più vicende personali si intrecciavano a quella collettiva, il genocidio degli Armeni, riuscendo ad ottenere un effetto straniante tale da farci reggere le violenze più inaudite, anche perché quando stavamo per coinvolgerci, ci veniva mostrata la troupe che in realtà stava girando un film sul genocidio.  Edward Saroyan (Charles Aznavour) ne era il regista e questo nome che fa rima con Egoyan è di per sé rivelatore.  Ora, in Remember, Atom Egoyan, canadese di origine armena, ha ancora sentito il bisogno di ritornare agli orrori del Novecento, forse per rielaborarli, sempre che lo si possa fare, chissà (C’è persino un legame tra i due genocidi e lo ritroviamo in una citazione di Ararat: “Sai cosa disse Hitler ai suoi generali per convincerli che il suo piano non poteva suscitare obiezioni? Qualcuno al mondo si è accorto dello sterminio degli Armeni?”).

In Remember al contrario,  la storia procede in un ordine cronologico, e logico; le interruzioni se mai sono quelle della lucidità di Zev, non sempre perfetta. Ed è soprattutto, come dicevamo, individuale. Al centro della narrazione c’è sempre lui (ancora più ammirevole Christopher Plummer se  si considera che è in scena dall’inizio alla fine);  al massimo ci sono due persone a rievocarla. Avviene la prima volta con il primo falso Kurlander, interpretato da Bruno Ganz, reso ancora più anziano e quasi irriconoscibile. E già a  lui Zev chiede di non urlare e non parlare in tedesco, perché non vuole risvegliare quel trauma a lungo sopito.

Ma perché, se la rimozione ha funzionato fino ad ora, all’improvviso Zev segue le direttive di Max come fosse inevitabile? Forse lo spiegano le uniche due scene commoventi del film, quelle in cui incontra i bambini, il primo sul treno all’inizio della fuga, la seconda in ospedale (luogo della seconda fuga, quando si ricorderà della missione). Sono gli unici momenti in cui Zev ci appare sincero, vero, senza le nebbie della mente, senza l’ossessione della vendetta, libero dai ricordi inaffidabili a cui ha affidato l’intera esistenza. E’ una bella intesa, un’empatia palpabile, quando lui si interessa a loro e loro a lui, in maniera autentica. “Chi è un nazista?” Gli chiede la bambina e lui risponde semplicemente: “Un uomo cattivo”.

Ecco, forse ora che non ha più moglie e sta perdendo la consapevolezza di sé, anziché abbandonarsi alla dimenticanza, che pure l’ha protetto per una vita intera, ora Zev vuole sapere, perché è l’ultima occasione, l’ultimissima, per  abbattere i muri interiori dell’oblio e ritrovare le verità perdute. Per la chiusura di questa storia, poi, sono state usate parole densissime: agnizione epifania catarsi, tutte giustificate, senza un briciolo di esagerazione.

Margherita Fratantonio



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