Magazine Poesie

Renato Pennisi: c’è un male nel corpo

Da Narcyso
9 giugno 2014

Renato Pennisi, LA NOTTE, interlinea 2011

Pennisi, La notte 180

Mentre incomincio a scrivere di questo libro, il caso mi propone una strana associazione musicale: ascolto in sottofondo il quartetto La morte e la fanciulla di Schubert.
E immagino, attraverso la musica, le due direttive di questo libro: una sorta di stanchezza meditativa legata a paesaggi notturni in cui la materia del nero, di una realissima polvere vulcanica e di un’architettura di tufo, tendono a ghermire il vitalismo dei corpi, a ghiacciarlo in un barocco funereo.
Movimento, dunque: assistiamo, in effetti, alla presenza di uno sguardo in viaggio, occhi mobili, infilati in traiettorie esattissime, nella “luce” tra una distanza e l’altra, tra un osservare ed essere osservati attraverso i segni lasciati, le impronte, o semplicemente i cornicioni in funzione di inquadratura.
Si incomincia con gli interni di un palazzo di giustizia, “scatola / dalle finestre sommitali”, “i corridoi e le celle anguste”, e “nella scatola si svolge la (…) legale prigionia” del poeta.
Elementi di disturbo, quindi, che segnalano l’attrito tra l’essere e il mondo: siamo nel mondo per necessità, custodi di una qualche legge, indagatori di ciò che è giusto e di “cosa ci fa colpevoli”: un giudizio che tuttavia “non ci salva dalla morte”.
Capiamo subito che questa notte, partendo dalle sale di un tribunale, di uno studio d’avvocato, evoca almeno due cose: Kafka e l’ignoranza ontologica della specie; l’architettura barocca di città involute nei loro stessi corridoi, create da sogni stupefacenti di vitalità e di morte.
Che la Voce sia abitata da una sorte di fastidio ce lo dicono, per esempio, certe reazioni agli oggetti, una tendenza a perdersi nei meandri di una topografia tentacolare, fino alla bellissima dichiarazione finale che qui riporto:

C’è nel petto un fiato duro,
al crocevia la strada disorienta,
non più l’incertezza, la direzione,
c’è uno spettacolo l’ultimo
il suono forte, l’edera di gesso
va su fino alla tribuna,
il freddo marcato sul volto
e sulle dita, ma dove sei?
C’è un male nel corpo
in qualche parte. La notte.
p. 77

Come si vede, un paesaggio interiore, franto, tutto fisico per mancanza e spaesamento, proietta il suo mal di vivere e si disvela nella metafora della notte come un male del corpo, non localizzato, non diagnosticabile. Malinconia, dunque, e non nostalgia, perchè in effetti la condizione del poeta è quella del viaggio, di una sorta di doloroso girovagare tra “i caseggiati tutti identici / tra i cavi elettrici sospesi, orrendi platani”, p. 75;

…sono in cammino (l’auto sa
dove andare) e si fa distante il mare
tra gli eucalipti, non platani
come pensavo, colorati vanno
i ciclisti, prima incontro
poi di fianco.

(C’è l’aquila reale sul biviere
è scesa dal vulcano certamente,
cerca cibo
o è un segno solamente)
p. 69

Queste strade tutte dove portano
restano lì, al posto loro, incustodite,
la stagione sarà breve e non importa
l’aria bagnata è scesa addosso
notte attraversata dai viadotti,
cancerose segnaletiche, lampi
che attraversano occhio e sonno,
c’è per fortuna quella idea svagata, quella,
la stagione sarà breve e non importa.
p. 61

Scene di un realismo capace di descrivere con precisione, ma anche di suggerire una sorta di metafisica senza scopo, che condanna il presente a una beffa un po’ sgraziata di teatranti ignari del senso della loro recita.

Cosa c’è fuori la città
se non distese, agglomerati, tralicci
se non alture e altre case
terre di scavo,
economie leggere lacustri
ma non c’è paura a pronunciare
questi nomi,
si apre nel costato una galleria
perchè una strada
il campo lo fiancheggia.
p. 65

Renato Pennisi ci suggerisce allora, l’effetto estraniante dello scarto tra paesaggio naturale e paesaggio edificato a immagine e somiglianza di un groviglio neuronale: forme di città ideali schiacciate dall’accumulo e dalle macerie della Storia. Forme che riproducono, nella luce notturna, “in attesa che la luce accada”, la loro stessa immagine deforme.
Forse, come detto all’inizio, il libro è da intendersi proprio nel contrappeso di queste forze divergenti; vita e morte giocano la loro partita muovendo i fili di fragili burattini, non si sa se resi tali dall’illusione dello scenario o dalla perdita di quell’immagine metafisica di città ideale:

Una volta un paese fu questa città
di saltimbanchi acrobati
mangiatori di fuoco
odori di zucchero e frittelle,
tutto guardava una finestra
e la gente dietro,
un’opera dei pupi,
se li mangiò la morte
tra un clangore una guerra
un fruscio di mentuccia
e di ginestra.
p. 54

Ecco chiuso momentaneamente il cerchio, ed ecco chiarita la suggestione musicale dell’inizio: il poeta sa che la sua parola, la poesia, “si muove con grazia / e non c’è grazia attorno”, p. 62; la poesia, almeno la poesia, crea immagini salvifiche del mondo, preserva l’idea musicale del mondo, l’essenza spirituale che nessuna morte potrà mai aggredire: “Ciò che salva un libro / sono gli spazi bianchi, vuoti, / due mani distese aperte sulla pagina / per impedire che il mondo cada / s’abbatta, che il mondo diventi / candido innevato / in una glaciazione, / un fraseggio di pause a capo come s’attorce e spezza la linea”, p. 53.

Sebastiano Aglieco


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