La stagione cinematografica appena tramontata ci ha regalato nell'arco dell'ultimo biennio un paio di preziosi biopic criminali, due poderose pellicole (tre, in verità) che hanno saputo manipolare con indubbia scaltrezza i canoni della messa in scena cui è sottoposto sul Grande Schermo questo genere di lavori per raccontarci in maniera vivida e approfondita (al limite dell'apologia, secondo taluni) figure recenti di gangster assurti disgraziatamente alla gloria: il primo trattasi di Renato Vallanzasca, il bel René nazionale, bandito languido, spaccone e sanguinario che fece scaldare il cuore di molte figliole nell'Italia rovente degli anni di piombo e le cui rocambolesche prodezze il sempre più incisivo Michele Placido è riuscito a trasferire in celluloide (complice una prova d'attore davvero pregna di Kim Rossi Stuart) in Gli angeli del male; l'altro è il francese Jacques Mesrnine, altro balordo dalle straordinarie capacità istrioniche che seppe meritarsi in terra d'Oltralpe l'appellativo di Nemico Pubblico Numero Uno e che il dotato regista Jean François Richet ha fatto rivivere al cinema - coadiuvato da un Vincent Cassel in assoluto stato di grazia - con un dittico sfornato nelle sale in sequenza seriale.Coppia di personaggi ad altissimo potenziale distruttivo, ugualmente innamorati delle donne, le armi, le banche e soprattutto la fama, questi due cattivastri dalla biografie oggettivamente accomunabili seppero piegare a loro piacimento - in un'epoca in cui internet non era nemmeno una ipotesi da fantascienza - il polverone mediatico che le rispettive carriere alimentavano, dipingendosi di volta in volta come una sorta di Robin Hood contemporanei o come rivoluzionari antisistema (è, se vogliamo, la medesima strategia che fece di Jesse James un mito dell'America guerrigliera, ma lì il contesto storico era oggettivamente tutt'altra faccenda).Il lungometraggio italiano trae origine dal romanzo autobiografico Il fiore del male. Bandito a Milano, e possiede un suo splendido ritmo, incalzante e decisamente rock (e va sottolineato quanto lo score dei Negramaro contribuisca non poco al passo della vicenda), confermando dunque - dopo le ottime prove precedenti - l’abilità di Placido dietro alla macchina da presa (nonché la sua inappuntabile direzione attoriale, qui tutti notevoli, da Timi a Scianna, alla Solarino): il risultato è un'opera che, pur con molte concessioni storiche (se ne dibatte ad esempioqui) scandite tra l'altro da una cronologia che forse avrebbe potuto osare di più in termini di montaggio, colpisce per la ricostruzione scenografica (finalmente niente basettoni posticci e zampe di elefante rivedute in chiave glamour-televisiva) e ti marchia a fuoco per la vis che anima il protagonista (oggettivamente, anche se il cineasta pugliese in promozione non ha fatto che negarlo, la fascinazione verso il bel Renè ci sta tutta, e la bravura/figaggine dell'ottimo Rossi Stuart non fa che amplificarla: ma questa è l'arte, bellezza!).Il secondo film (diviso come detto in due pellicole separate, lunghe circa un paio d'ore ognuna) racconta la vita di Mesrine partendo dal suo ritorno in Francia dopo il conflitto in Algeria per mostrarci la sua irrefrenabile ascesa nella criminalità parigina sino alle copertine su Esquire con in braccio il Kalasnikov e infine l'agguato conclusivo da parte della polizia. Diseguali nella focalizzazione degli snodi narrativi (il primo film, L'istinto di morte, sembra arrancare spesso trattenendo a fatica l'esuberanza recitativa di un Cassell che talvolta sembra sbagliare la misura viaggiando come un diesel; il secondo invece, L'ora della fuga, inforca il crinale della frenesia adrenalinica facendo propri gli stilemi del l'action duro e puro e indovina la giustapposizione tra la componente biografica e quella più propriamente spettacolare, tra fughe, rapine, sparatorie e inseguimenti mozzafiato. Un piatto saturo di ingredienti che, invece di risultare eccessivamente azzimato, conduce fatalmente - diremmo per per accumulo - alla resa complessiva d'una personalità dirompente e sfaccettata come quella del protagonista). Ne vien fuori quindi il ritratto a tutto tondo di un personaggio carismatico, oltremodo sopra le righe: un violento, tracotante gaglioffo ossessionato dalla propria immagine, dotato di un'empatia elementare verso il prossimo, capace di attribuirsi crimini non commessi al fine di soddisfare le attese di un pubblico assetato di bravate sempre più eclatanti e rumorose (la vanagloria portò il bandito persino a scrivere un'autobiografia in cui, per puro narcisismo manicomiale, amplificava i crimini commessi) e attirare su di sè l'attenzione della stampa, distratta dal golpe in Cile del dittatore Pinochet, un pazzo incosciente al punto di allearsi con le Brigate rosse italiane allo scopo di «distruggere il sistema» senza approdare mai ad alcuna reale consapevolezza politica.Due piccoli gioielli che hanno ricevuto il plauso della critica e che il botteghino ha molto premiato, legittimamente. In un ideale tenzone creativo attribuiremmo forse la vittoria ai punti a Placido, con un Vallanzasca che - eresia! - in soldoni risulta persino più riuscito dei tragici malviventi che animavano il suo più famoso Romanzo Criminale, mentre il film (i due film) del francese, pur meritandosi tutta l'ammirazione per l'indubbia capacità stilistica e la maestosità della visione, deve forse buona parte della sua riuscita a un Vincent Cassel davvero spropositato. Una gran goduria per gli amanti del genere, comunque, in entrambi i casi.
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